Ci vuole l’autorevolezza di Ernesto Olivero, il fondatore del Sermig, intervistato da Il Messaggero, per mettere alcuni puntini sulle “i” nella vicenda, per fortuna finita bene, di Silvia Romano, la cooperante italiana rapita in Kenya 18 mesi fa e liberata sabato dopo una lunga trattativa con i jihadisti somali.
Gli hater da tastiera l’hanno subito presa di mira appena apparsa sulla scaletta del Falcon dell’Aise, velata e con l’abito delle donne musulmane somale. «Se stava a casa non le succedeva niente», il commento più gentile.
Volere portare concretamente la propria solidarietà al Sud del mondo è un valore, non una colpa. Ma come insegna Gino Strada di Emergency, che sui teatri di guerra sta da oltre 30 anni, cooperazione non vuol dire improvvisazione.
O come dice in modo assai esplicito il fondatore del Sermig, il Servizio Missionario Giovani nato nel 1964 a Torino: «Non ci si può improvvisare, servono sette anni per formare un volontario. Non mandiamo una persona da sola e dobbiamo avere un punto di riferimento sul posto».
Se ci sono state delle responsabilità della onlus Africa Milele di Fano a mandare Silvia Romano in un centro nel nulla a 80 chilometri da Malindi, unica bianca e senza scorta, sarà la magistratura ad accertarlo. Di sicuro più la cooperazione è frutto di scelte ponderate e non di improvvisazione, che in certi posti non è ammessa, meno armi avranno gli hater per prendere di mira chi li aiuta a casa loro. Meno ci sarà da polemizzare sui milioni di dollari, tra i 4 e gli 8 in questo caso, spesi dallo Stato per riportare a casa i cooperanti.
Avere qualche perplessità nella vicenda di Silvia Romano non vuol dire sposare la tesi di chi dice che non doveva andare in Africa. Quanto alla sua conversione, frutto di pressioni psicologiche, convinzione od opportunismo per favorire la propria liberazione, è un problema che riguarda solo Silvia Romano.