Un’esperienza inedita, nel pieno di una fase inedita per tutti noi. L’Orchestra Almar’à è nata da un gruppo di tredici donne che arrivano da otto Paesi – Siria, Egitto, Eritrea, Italia, Turchia, Tunisia, Kenya e Ungheria – per realizzare un esperimento di fusione di culture e sonorità, sotto il suggestivo auspicio di una parola araba che significa ‘donna con dignità’.
Appena nate, e già in rinnovamento. Ovviamente niente è programmabile, per il momento, data la diffusione pandemica del Coronavirus, e per questo gli artisti si stanno attivando per ridisegnare la comunicazione musicale attraverso il web e i live streaming.
La cosa più affascinante di questo progetto è che Almar’à rappresenta un’Italia che esiste, fatta di donne che si sono ritrovate lontane dalle loro origini per motivi vari, tra scelte e necessità. A reclutarle è stato il tunisino Ziad Trabelsi dell’Orchestra di Piazza Vittorio, con l’idea di creare un melting pot di artiste anche non professioniste e provenienti dalle formazioni musicali più disparate.
«Il primo incontro con le altre musiciste è avvenuto a Roma nel 2017 e non è stato facile all’inizio perché non ci conoscevamo tra di noi e partivamo da zero», racconta Dania Alkabir Alhasani, violinista di Almar’à, che è stata parte dell’Orchestra Nazionale Siriana e della Syrian Philharmonic Orchestra: «Anche se la voglia di lavorare insieme c’è stata da subito, solo in un secondo momento sono nate collaborazioni e amicizie». Dania è arrivata in Italia alla fine del 2011 con una laurea presa al conservatorio di Damasco, poco prima che scoppiasse la guerra in Siria, dove abita tuttora la sua famiglia. Si è stabilita a Padova e ha proseguito gli studi. Quando è stata contattata da Trabelsi per l’orchestra, ha accettato con entusiasmo di prendere parte al progetto, non solo per la sua bellezza artistica ma anche per l’ideale condiviso di una lotta al superamento dei pregiudizi.
L’ignoranza è un problema che stiamo vivendo in maniera forte. È importante dare una mano a chi arriva da un altro Paese e non dobbiamo aspettare i momenti difficili per rendercene conto. Oggi stiamo bene ma non possiamo sapere quello che ci accadrà domani, nessuno di noi è isolato o immune.
Ora che Almar’à sta iniziando a suscitare curiosità e interesse, le ragazze sono parecchio impegnate per farsi conoscere al pubblico e non vedono l’ora di potersi esibire dal vivo. La recente uscita del loro primo singolo è stata accompagnata da un video per la regia di Francesco Cabras. Il titolo, Rim Almar’à, significa ‘giovane donna’ ed è la versione moderna di una canzone tradizionale tunisina che racconta la promessa d’amore a un uomo che sta partendo. Nel video non si vedono mai i volti delle musiciste, ma silhouette stilizzate su cui scorrono immagini di acqua, fiori e tempeste di sabbia, in una simbolica condivisione di destini.
Silvia La Rocca, flautista italiana di origine eritrea con una carriera decennale in ambito concertistico, spiega la scelta dei pezzi del repertorio dell’orchestra: «Parlando con Trabelsi, che è il nostro principale arrangiatore, abbiamo scoperto che la maggior parte delle canzoni della tradizione araba parlano d’amore. Ma anche se non si usa trattare altri argomenti, tramite l’amore si possono creare delle metafore interessanti e fare riferimenti ad altro» riflette.
Il progetto è partito dall’idea di far conoscere la cultura araba, che è millenaria e vastissima, e combattere gli stereotipi che le vengono attribuiti, racconta: «Da lì ci siamo allargate a tutta l’area del Mediterraneo e oltre, includendo brani che arrivano da altri paesi. Dalla Turchia, per esempio, grazie a Yasemin Sannino, una delle nostre cantanti. Ma anche dalla tradizione popolare italiana, come Amara terra mia, una delle mie canzoni preferite, nota al pubblico per l’interpretazione di Domenico Modugno. Risale alla storia agricola abruzzese e il testo parla del dolore di abbandonare la propria terra, in un collegamento perfetto con la situazione attuale che vede tante persone costrette a lasciare il proprio Paese. È un tema ricorrente nella storia dell’Italia e dell’umanità»
Silvia è nata in Eritrea ed è stata adottata quando aveva 16 mesi da una famiglia romana – «E si sente!» esclama ironica, con accento capitolino. Ha una impostazione classica però si è cimentata con molti generi: «Ascolto di tutto, dalla musica rinascimentale al metal. Ma, avendo una formazione classica, sono abituata a un tipo di interazione con gli altri musicisti differente rispetto a quello che avviene in Almar’à» riassume. «Se nella musica classica l’approccio è più tecnico, in Almar’à sentiamo la necessità costante di confrontarci e comprendere. Quando facciamo le prove, per esempio, accanto a me c’è Valentina che suona un flauto tradizionale arabo, il ney, diverso dal flauto traverso che suono io. Questa cosa ci stimola continuamente e credo che si senta nella musica che facciamo. È tutto molto naturale e divertente».
Ai tempi di Coronavirus, in tutta Italia, spopolano i live da balcone: «Purtroppo il mio strumento non si presta a una esibizione da solo, funziona bene in un ensemble», spiega Silvia «Ma mi fa piacere vedere ciò che gli artisti stanno sperimentando in questo momento in rete, è la testimonianza di una necessità di esprimersi da parte dei musicisti ma anche di quanto sia importante la vicinanza al pubblico. Spesso si sottovaluta il potere della musica e invece è un modo molto efficace di comunicare perché in diverse misure appartiene alla dimensione più intima di tutti noi. Nei flash mob, tramite le canzoni le persone cercano di far sentire alle persone intorno ciò che sentono, anche solo per dire che non siamo soli e che ognuno pensa all’altro. Trovo che sia una cosa molto commovente».