Fernando Coratelli
Alba senza giorno
(Italo Svevo, 2019)

La sliding door della vita impone incroci inattesi. Sullo sfondo di una mattinata milanese come tante, un colpo di pistola annoda le storie di una giovane madre di periferia che si batte contro un campo rom che vorrebbero erigere sotto casa sua, un killer della ‘ndrangheta in missione al Nord e Stoian e Stéphka, due ragazzi rom in viaggio, alla ricerca di fortuna nell’Europa Occidentale. Fernando Coratelli, barese, scrittore e sceneggiatore per il cinema e il teatro, con Alba senza giorno scrive un thriller dal plot cinematografico. Mirabile il racconto dei due giovanissimi rom, lontani anni luce dallo stereotipo dei brutti e cattivi, ma senza cadere nel romanticismo buonista. Reali come personaggi veri, inseguono i loro sogni attraversando le difficoltà della vita, doppie per chi non è ben accetto, se non addirittura rifiutato. Il violino di Stoian è la colonna sonora del romanzo. Negli occhi di Stéphka si riflette il mare che sognano di vedere presto. Del thriller c’è il finale, con le storie dei protagonisti che si intrecciano accorciando le distanze tra di loro in un disegno comune. Ma da questo romanzo esce con forza soprattutto la storia di un mondo, quello dei rom, dove niente viene nascosto ma finalmente rivelato al di là di ogni pregiudizio. Fabio Poletti

Per gentile concessione dell’autore Fernando Coratelli e dell’editore Italo Svevo pubblichiamo un estratto del libro Alba senza giorno.

Copertina

Il buio avanza dal Mar Nero come un’armata nemica. Si spande verso ovest, dove gli ultimi barlumi sfiorano i casermoni fatiscenti e le baracche sghembe di mattoni, catrame e lamiere. Alle finestre dei caseggiati e sui tetti dei prefabbricati, banchi di antenne paraboliche puntano verso sud-est, in attesa che la razione quotidiana di energia elettrica permetta di sintonizzarsi su trasmissioni satellitari turche.
Un bambino salta sul cofano della carcassa di una vecchia auto bruciata molto tempo prima. Intanto, sul viale che taglia in due il quartiere, un tombino rigurgita un rivolo di melma ed escrementi che si incunea al centro della strada, tra la spazzatura abbandonata e stratificata dal tempo. Un carretto trainato da un cavallo si sposta verso sinistra per girare al primo incrocio. Le ruote si impennano su un cumulo di rifiuti e il carro rischia di ribaltarsi. Con uno strattone a una briglia, l’uomo riesce a tenere la strada e il carico di ferraglia si riassesta con un gran fracasso che rimbomba per il quartiere.
Il fruttivendolo abbassa la piccola serranda dell’edicola di legno dopo avere ritirato le ceste semivuote di verdura mezza marcia rimasta invenduta, e canta una vecchia canzone popolare di quando c’era il regime comunista. Alla fontana sul ciglio della strada, una donna prova a riempire un paio di bottiglie di plastica con il filo d’acqua che esce a intermittenza. Due cani avanzano lenti, nella frescura del tardo pomeriggio, costeggiando il muro di un casermone; una finestra lasciata aperta al quarto piano sbatte con frequenza ritmata, mentre al piano di sotto si sente un uomo parlare al telefono a voce alta.
Sul parapetto delle scale, poco sopra la rampa che porta al cortile interno, è seduto Stoian con le gambe a ciondoloni. Stéphka è sdraiata lungo il muretto con la testa appoggiata sulle gambe di lui. Gioca con il foulard che si è sfilata, i lunghi capelli le scivolano ai lati. Mentre le urla dei ragazzini si disperdono per il ballatoio, Stoian alza lo sguardo verso il cielo, Niente anche oggi.
Poi si porta le mani alle tempie e le parla in un miscuglio di lingua bulgara e romaní, Mi avevano detto che… Invece mi hanno dato buca, dicono che quel lavoro non c’è più.
Ma ti avevano promesso…, Stéphka lascia il resto della frase a un movimento della mano.
Già, avevano promesso.
E sei andato alla Fondazione?
Non mi vogliono più dopo quello che è successo.
Lei si solleva di scatto, Ma non era mica colpa tua. Eh, vaglielo a dire tu.
Delle risate da una finestra al piano di sopra interrompono il loro discorso. Stoian reclina la testa all’indietro. Poi torna a fissare la strada sotto di lui, È deciso. Prendo il pullman fra due settimane e vado a cercare lavoro a Dortmund.
Ancora con questa idea? Che cambia?, Stéphka si riadagia sulle gambe di lui. Lo sai che il fratello di mia cognata è andato e dopo un mese è tornato.
Quello non è buono a niente. Io vado, ho deciso. Guadagno e mando i soldi a casa, poi appena possibile mi raggiungi.
Stéphka non dice niente. In lontananza si sente il latrato di un cane e le urla del padrone che cerca di zittirlo. Stoian la guarda. Ha la testa girata dall’altra parte, le labbra increspate e gli occhi socchiusi. Le sfiora la fronte, lei non si muove.
Potresti venire via con me.
Non posso venire con te. Diranno che faccio la puttana. E i tuoi si opporranno, vedrai.
Sicuro non fai la puttana. Decido io per noi, e le accarezza una guancia per confortarla.
All’improvviso da uno degli appartamenti di fronte si sente uno scroscio di applausi cui segue il gracchiare di una voce che parla turco – qualcuno sta guardando un reality show molto seguito nel quartiere. Hanno già attaccato la corrente stasera?, Stoian aggrotta la fronte.
Lei si stringe nelle spalle e salta giù dal muretto. Pigia l’interruttore della luce delle scale senza risultato. Come fanno a vedere la tv?, dice mentre insiste a spingere l’interruttore.
Comunque io parto e tu vieni con me, riprende lui e agita un pugno.
Ho capito, ho capito. Ma poi che facciamo laggiù? Arriviamo a Berlino. C’è un mio cugino che lavora lì. Mi aiuterà a trovare una sistemazione. E poi posso sempre suonare, si sposeranno pure in Germania, no?
Perché non fai un ultimo tentativo e vai in quel posto che sta in centro, dove cercare.
Te l’ho già detto, la interrompe lui con un gesto rabbioso. Per entrare lì bisogna aver finito la scuola.
Per suonare? Cosa c’entra la scuola?
È così. E poi non voglio stare qui, non voglio morire in Bulgaria. Voglio un figlio, e non voglio farlo nascere a Stolipinovo.
Però qui abbiamo le famiglie. E poi non conosciamo altre lingue, come facciamo?
Si impara. E in Germania è pieno di turchi, parliamo un po’ di turco.
Lei volta la testa dall’altro lato, Non lo so.
Ho deciso che parto. E tu vieni con me. Se non trovo lavoro in Germania, ce ne andiamo in Francia o in Italia. Tuo zio mi ha detto che gli italiani sono buoni. Così ce ne andiamo a vivere in una città di mare. Una città di mare?, chiede lei e subito le luccicano gli occhi. Lo sai che non ho mai visto il mare…
Lo vedrai.
Rimangono in silenzio. Lui intanto medita su ciò che dirà ai suoi, sulle cose da prendere prima di partire, su come raggranellare i soldi necessari. Soprattutto deve rintracciare il cugino, che è andato via da un po’ di anni e che in realtà non ha mai conosciuto.
Lei invece guarda il cortile; i gomiti puntati sul parapetto, le mani giunte e tamburella i pollici fra loro. Sa bene che lui non cambierà idea. E alla fine lo seguirà – sa anche questo. Ma dovrà lasciare quello che ha lì, i genitori, la piccola casa, il quartiere da cui non è mai uscita.
Un corvo gracchia sul tetto di una baracca. Il buio ha sovrastato il quartiere e la corrente elettrica non è ancora arrivata. Intanto un cane ulula, si sente lo stridio di un’auto che arriva a tutta velocità, i fari che spennellano di bianco i pali della luce ancora spenti; un uomo si affaccia a una finestra; nei palazzi qualcuno armato di torcia illumina il suo cammino sulle scale. Infine il temporizzatore del Comune dà il via libera alla luce; un paio di lampioni non ancora fulminati si accendono in strada, e pochi istanti dopo è un tripudio di televisori che si sintonizzano via satellite sui canali turchi.

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