Vengono dall’Africa, dai Paesi del Medio Oriente, dall’Europa dell’Est e dall’Asia e scrivono in italiano. Al contrario dei Paesi con un passato coloniale dove si sono già formate delle élite che parlano e scrivono nelle lingue dei colonizzatori (scrittori come Tahar Ben Jelloun, in Francia, o Hanif Kureishi, in Inghilterra), in Italia i cosiddetti migrant writers rappresentano un fenomeno che si è sviluppato intorno agli anni Novanta, all’indomani dei flussi migratori importanti. Ispirati dal bisogno di farsi ascoltare da un pubblico italiano, scrivono spesso testi autobiografici che parlano di violenza, razzismo, solitudine e integrazione impossibile. Soltanto quando si sentono più consolidati e inseriti nel tessuto sociale
—  che in genere avviene dopo il passaggio generazionale tra vecchi e nuovi immigrati, l’integrazione di quelli esistenti, la trasformazione del lavoro e i ricongiungimenti familiari —, iniziano ad esprimersi in senso pieno con opere sempre più tese a oltrepassare l’autobiografismo testimoniale e la denuncia della prima fase. 

Che la migrazione sia un topos letterario tra i più potenti non è certo una novità. Basti nominare due “sottotemi” dell’esperienza migratoria o dell’esilio —  il viaggio e la nostalgia —, per capire quanto essi abbiano nutrito le letterature. La storia abbonda di esempi di scrittori che decidono di lasciare il porto sicuro della propria Muttersprache per dare vita a capolavori linguistici ricchi di contaminazioni. Pensiamo a Samuel Beckett che a un certo punto dall’inglese emigra nel francese; o a Joseph Conrad, Vladimir Nabokove Arthur Koestler, rispettivamente passati dal polacco, russo e tedesco all’inglese; o pensiamo a Iosif Brodskij, ebreo russo nonché finissimo prosatore di lingua inglese dopo essere diventato il cittadino americano Joseph Brodsky. E ancora Milan Kundera, romanziere ceco naturalizzato francese assurto alla notorietà con L’insostenibile leggerezza dell’essereche negli anni Novanta ha sfidato se stesso scrivendo la sua prima opera narrativa in lingua francese (La lentezza, 1995).  

La chiamano letteratura migrante, della migrazione, multietnica, multiculturale, interculturale, della diaspora, ibrida, sincretica, creola o meticcia, ognuno cerca di dare una sua definizione. In realtà, al di là di ogni etichetta, sarebbe invisibile se non fosse per l’impegno di alcune associazioni (Eks&Tra), di piccole e medie case editrici o riviste che negli ultimi decenni hanno promosso la diffusione di testi e idee che non troverebbero spazio nell’editoria mainstream e nei media principali (El Ghibli, Terre di Mezzo, Edizioni dell’Arco, Nigrizia, Nazione Indiana). I primi libri dei nuovi autori che scrivono in italiano iniziano a farsi conoscere tramite la vendita on the road da parte di volonterosi librai nomadi, per lo più senegalesi, che guadagnano una percentuale su ogni copia venduta per pochi centesimi ai passanti.

Il resto viene distribuito in libreria, nei negozi di commercio equo e nei centri sociali. Pap Khouma è tra le figure più note in Italia che ha dato il via allo sdoganamento della letteratura migrante e a farla conoscere in una nuova prospettiva. Nato a Dakar nel 1957, naturalizzato italiano, si è stabilito a Milano nel 1984. Il suo primo libro Io, venditore di elefanti (Garzanti) firmato con Oreste Pivetta nel 1990, narra la difficoltà che egli stesso ha dovuto affrontare da venditore ambulante e da immigrato. Adottato da molte scuole come libro di testo, fa parte dei primi scritti in cui l’autore migrante, non ancora padrone della lingua italiana, si fa aiutare da giornalisti professionisti per la scrittura. Come Saidou Moussa Bache si è fatto affiancare da Alessandro Micheletti per scrivere La promessa di Hamadi (Editore De Agostini Scuola) o Mohamed Bouchaneche in collaborazione con Carla De Girolamoe Daniele Miccione, ha scritto Chiamatemi Alì (Editore Leonardo). Un tratto che accomuna gran parte di questa produzione letteraria è l’oralità, materia prima per forgiare racconti che si ispirano ai cantastorie (griot) venuti da lontano. Significativi, in questo senso, i testi dei senegalesi Mohamed Bae Mbacke Gadji.

Quando si parla di letteratura italiana della migrazione, non si può non citare Armando Gnisci, professore associato di Critica letteraria e Letterature comparate presso l’Università La Sapienza di Roma e fondatore della Banca dati degli scrittori immigrati in lingua italiana (Basili), nata nel 1997. «Oggi si chiama Basili&Limm, ossia Letteratura Italiana della Migrazione Mondiale —  scrive Gnisci sul suo sito ufficiale —  e conterrà anche i dati di quella che noi chiamiamo Nuova Generazione di scrittori,  vale a dire le opere della letteratura italiana contemporanea degli scrittori nati e/o scolarizzati in Italia da genitori immigrati e/o da coppie meticce. Queste persone scrivendo letteratura preparano il “nuovo mondo” e vanno formando l’attuale transculturazione europea».

La letteratura migrante nel nuovo millennio

Ma è con l’inizio del nuovo millennio che la letteratura migrante italiana – analoga a movimenti denominati Black Britain, nei paesi anglosassoni, e Littérature Beur, diventata poi Littérature de banlieue, Littérature urbaine, populairee “post-beur” in Francia — comincia a decollare sul serio. Gli editori italiani più autorevoli le riconoscono una dignità letteraria rendendosi conto del contributo che essa può dare alla letteratura italiana ampliandone l’immaginario e gli orizzonti. Il fenomeno lo analizza, tra gli altri, un saggio sulla nuova dimensione di in-betweenness dal titolo Ci siamo. Il futuro dell’immigrazione in Italia (Sperling & Kupfer, 2007, ormai fuori catalogo), scritto a quattro mani da Otto Bitjoka e dall’autrice di questo articolo. Sono gli anni in cui la Fiera del Libro di Torino inizia a dedicare una serie di eventi alla letteratura di una minoranza scritta nella lingua della maggioranza.

Fra di loro tanti i “nuovi italiani”, tra i quali anche le voci degli scrittori in esilio, costretti a scappare dal loro Paese per motivi politici o in seguito a conflitti. Poeti bilingue e ricchi di talento come Gëzim Hajdari, nato a Lushnje (Albania) nel 1957 in una famiglia di proprietari terrieri i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Dal 1992 Hajdari vive come esule in Italia, dove scrive e traduce in albanese e in italiano. Ignorato in patria, da noi gli sono stati conferiti diversi riconoscimenti, tra cui il prestigioso Premio Montale per la poesia inedita.  

In questo contesto vale la pena  ricordare scrittori come Carmine Abate, italiano di origine arbëresh, figlio di emigranti e a sua volta con un passato di emigrazione in Germania. Le sue opere raccontano la migrazione degli albanesi, arrivati in Italia dopo la morte del mitico condottiero Skanderbeg, e trattano temi di migranti e incontri tra culture. Un’esperienza, quest’ultima, che ha lasciato, a torto, poche tracce nella letteratura italiana. Eppure esiste una vasta produzione di letteratura dell’immigrazione nella nostra lingua, o prodotta da scrittori di origine italiana come John Fante che meriterebbe di essere recuperata e studiata, se non altro come occasione per approfondire la storia del passato migratorio del nostro Paese; una storia anche dolorosa e per molti aspetti non diversa da quella dei tanti immigrati di oggi. Pensiamo al caso di Yousif Jaralla, di origine irachena, che intreccia tradizione mediorientale e siciliana, creando un linguaggio modellato su quello della narrazione orale sufi; o di Tahar Lamri, scrittore di punta algerino e ravennate di adozione, che mescola dialetti della pianura padana con il linguaggio dei meddha, i cantastorie, maghrebini. Sono gli anni in cui si fanno notare autori naturalizzati italiani come l’iracheno Younis Tawfik, l’antropologo e giornalista algerino Amara Lakhouso Mihai Mircea Butcovan, scrittore e poeta romeno nato a Oradea nel 1969 e approdato in Italia nel 1991 dopo la fine ingloriosa di Ceausescu. Nel suo libro Allunaggio di un immigrato innamorato(Besa Editrice), descrive senza peli sulla lingua vizi e virtù di italiani e romeni. Ma la chicca è la storia (vera) del protagonista, che dalla Romania emigra a Milano e si innamora della bella Daisy, leghista militante nonché figlia devota di una ricca famiglia brianzola con tutto quello che ne consegue. E ancora autori come Kossi Komla-Ebri, nato in Togo nel 1954 e naturalizzato italiano. Dopo aver conseguito la maturità in Francia, una laurea in Medicina e Chirurgia a Bologna e una specializzazione in Chirurgia Generale all’Università degli Studi di Milano, il dottore ha faticato non poco prima di poter esercitare la professione nel Belpaese: dieci anni di attesa del riconoscimento della cittadinanza italiana e altrettanti per iscriversi all’albo dei medici. Un percorso pieno di ostacoli che Komla-Ebri ha descritto in una serie di aneddoti raccolti in due volumi (Imbarazzismi, Coedizione con Edizioni dell’Arco). Non a caso è diventato il più lombardo e conosciuto tra i nuovi autori africani, abilissimo nell’usare l’umorismo per sdrammatizzare. Un esempio? «Un giorno Charles, un mio amico togolese, sposato con una ragazza italiana, portava a passeggio i suoi due figli piccoli. Incrociarono due signore anziane. Una di loro, mossa da amorevole compassione, mormorò: “Oh, por diavül, ga tucà fa ül baby-sitter!”».

E come non citare Santino Spinelli, in arte Alexian, nato a Pietrasanta nel 1964. Musicista, compositore, poeta, scrittore, è stato tra l’altro docente di Lingua e Cultura Romanì nonché collaboratore del Centro di ricerche zingari della Sorbona di Parigi. Spinelli ripercorre il viaggio del popolo rom al quale orgogliosamente appartiene, recuperando espressioni musicali della tradizione romanì in una prospettiva di cultura cosmopolita e transnazionale. La sua poesia Auschwitz fa da ornamento a Berlino, nei pressi del Bundestag, al monumento dedicato alla memoria del genocidio di Sinti e Rom durante il nazismo, inaugurato il 24 ottobre 2012 alla presenza del capo di Stato tedesco e di Angela Merkel (Faccia incavata / Occhi oscurati / Labbra fredde / Silenzio / Cuore strappato / Senza fiato / Senza parole / Nessun pianto).

I convegni, i concorsi e Pecore Nere

Moltissime anche le donne straniere che scrivono in italiano spaziando attraverso tutti i linguaggi letterari senza vincoli da limiti di genere. Scrittrici e intellettuali come l’albanese Ornela Vorpsi (ora risiede a Parigi), la capoverdiana Jesus Maria de Lourdes, la greca Helene Paraskeva, la slovacca Jamila Ockayovà, la giornalista e regista polacca Magdalena Szymków (ora vive in Olanda) o la brasiliana Christiana De Caldas Brito. Quest’ultima ha visto lontano già una quindicina di anni fa: «Sarebbe bello se accanto alla “new economy” ci fosse uno spazio per la “saudade”; che le “favelas” e i “meninos de rua” potessero essere compresi dagli italiani nella stessa misura in cui oggi capiamo “file” o “link”. Se accettiamo “cliccare” o “chattare”, perché opporre resistenza ai neologismi della letteratura della migrazione?» (Dichiarazione tratta dal primo Convegno Nazionale Culture e letteratura della migrazione, Ferrara 2002).

Intanto nel 2005 nasce il Concorso letterario nazionale Lingua Madre, ideato dalla giornalista e saggista Daniela Finocchi, con l’approvazione e il sostegno della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino. Sono gli anni in cui si impongono giovani autrici piene di passione e di slancio. Un esempio fra tutti è l’antologia Pecore Nere a cura di Emanuele Coen e Flavia Capitani, pubblicato da Laterza. Uscito nel 2006, raccoglie le testimonianze di Laila Wadia (nata a Bombay da genitori indiani, trasferita in Italia nel 1986); Gabriella Kuruvilla (nata a Milano da madre milanese e da padre indiano); Ingy Mubiayi (nata al Cairo da madre egiziana e padre zairese) e Igiaba Scego (nata in Italia da genitori somali). «Era il primo libro del genere scritto sul tema nel nostro Paese e infatti all’epoca i giornalisti non sapevano bene come trattarci —  osservava Igiaba Scego in un articolo apparso su Internazionale (21 gennaio 2015).

Non si capacitavano di quelle quattro “straniere” che parlavano così bene l’italiano e sapevano tante cose sull’Italia. Quando noi spiegavamo che eravamo di fatto italiane, nate e cresciute a Roma, Milano o Trieste, loro ci guardavano dubbiosi. Possibile? Italiane? Voi? Ma siete troppo marroni! All’epoca non era nemmeno entrata nell’uso la formuletta magica “seconda generazione” che un po’ spiegava delle cose, anche se non in modo ottimale. Eravamo di fatto, per chi ci doveva raccontare, delle aliene». Nel frattempo Igiaba ha vinto nel 2011 il Premio Mondello come autrice italiana con La mia casa è dove sono (Rizzoli, 2010).

 

Negli ultimi anni, tuttavia, dopo un periodo di meritata notorietà, la letteratura migrante in Italia sembra attraversare un momento di stallo. I flussi migratori, gli scambi turistici, commerciali, di soggiorno, di studio e la globalizzazione delle aziende, danno per scontata la fusione di tradizioni, lingue e culture. Cambiano le mode e cambiano le etichette, questo tipo di letteratura fa meno notizia e si confonde con quella che qualcuno già chiama global novel. Senza contare i “nomadi virtuali”, quelli che navigano nell’oceano della rete e costruiscono nuove communities without propinquity, ossia comunità senza vicinanza. In questa società liquida, per parafrasare Zygmunt Bauman, anche gli scrittori non sembrano sentirsi più a casa da nessuna parte: da un lato c’è il desiderio legittimo di conservare la propria identità locale o nazionale, dall’altro l’adesione a una realtà globale è inevitabile.Se sei alla ricerca di un Rolex replica superclone, Super Clone Rolex è il posto dove andare! La più grande collezione di falsi orologi Rolex online!

Dal globish all’europanto

Sul piano linguistico, questi intrecci culturali hanno già prodotto un mescolamento di carte continuo tra linguaggi codificati e deviazioni dalla norma. Le interferenze linguistiche, le ambiguità semantiche, perfino l’intraducibilità, che a volte si manifestano nel passaggio da una lingua all’altra, possono dare origine a percorsi inaspettati, talora divergenti (e divertenti) e condurre a soluzioni e prospettive insolite, a modi diversi di leggere la realtà: viene in mente Salman Rushdie che inserisce parole di sua invenzione, una fra tutte, chutnification, una commistione tra il nome di un piatto indiano (chutneychatni) e un suffisso inglese. Con orrore dei puristi della lingua italiana (e non solo loro), oggi anche nello Stivale si parla e si scrive globish, un inglese corrotto e ridotto ai minimi termini, impastato di Internet, emoticons, pubblicità, musica e fumetti, usato più o meno correntemente da circa due terzi della popolazione terrestre. Dal globish derivano direttamente il franglais (francese-inglese); il japlish (giapponese-inglese), lo spanglish (spagnolo-inglese) e così via. Senza contare i nuovi (e improbabili) termini letterari che circolano in rete, tra cui il portulano, un miscuglio di portoghese e italiano oppure l’itaniolo che mescola spagnolo e italiano. Dulcis in fundo, non possiamo non citare l’europanto, la lingua artificiale creata nel 1996 da Diego Marani, un traduttore del Consiglio dei Ministri Europeo di Bruxelles. Definita dal suo stesso creatore uno scherzo linguistico, è un ibrido di termini presi da molte lingue europee. In breve, to speakare europanto, tu basta mixare alles wat tu know in extranges linguas: un 42 per cento di inglese, un 38 per cento di francese, un 15 per cento misto delle altre lingue europee, un 5 per cento di fantasia e il gioco è fatto. Marani ha scritto alcuni articoli su questa lingua ed ha pubblicato una serie di racconti umoristici molto divertenti (Las adventures des inspector Cabillot). 

A questo punto cercare di definire o circoscrivere la letteratura in generale
—  da qualsiasi parte del mondo essa provenga —  diventa un esercizio assai complesso che rischia come minimo l’incompletezza. La Babele del terzo millennio la dice comunque lunga sul grado di contaminazione non solo della nostra, ma di tutte le lingue, letterature e culture del pianeta, nessuna esclusa, che le rende irrimediabilmente mutevoli, nomadi, ibride e meticce.

Articolo pubblicato per gentile concessione di PreText. Libri&Periodici, del loro passato e del loro futuro