Tra le comunità con una presenza stabile e regolare sul territorio, quella cinese vale l’8,3% dei cittadini non comunitari in Italia, il 14% circa delle imprese individuali non comunitarie e sempre di più in termini di microeconomia e small business. Quarti per popolazione, con 309.110 membri (al 1 gennaio 2018), sono invece secondi per numero di titolari di impresa: 52.075, con un tasso di crescita annuo del +2,6%, secondo il report del Ministero del Lavoro (“La comunità cinese in Italia”, 2018). Nei numeri si legge tutta la vocazione al fare e all’autoimprenditorialità che la comunità ha saputo esprimere in questi anni, soprattutto nel comparto del commercio e della ristorazione (che assorbe il 67% della forza lavoro italocinese), fino al cliché stakanovista e un po’ razzista, che fa sentire noialtri un popolo di oziose cicale.
Il dato che forse meglio descrive questa comunità è infatti il suo microscopico tasso di disoccupazione: 4,5%.
In un quadro complessivamente positivo per i lavoratori, nel 51% dei casi il rapporto di lavoro termina con le dimissioni del dipendente (la media per i lavoratori non comunitari è 16%) contro un 33% di licenziamenti o cessazione a termine (69% per gli altri non comunitari).
Una questione di parità
Da un’analisi di genere, bisogna osservare che la comunità italocinese, divisa pressoché alla pari tra maschi e femmine, è prima per numero di imprenditrici: 24.175, pari al 46% delle imprese cinesi in Italia e al 30% circa delle titolari non comunitarie.
Il livello di parità nell’accesso al business e al lavoro, trova anche altre conferme. Ad esempio lo studio: nell’anno accademico 2016/2017, su 1.233 studenti cinesi che hanno conseguito una laurea biennale o triennale (+6,8% annuo), il 57,6% sono ragazze. Da notare che il numero di studenti cinesi iscritti a un corso di laurea in Italia (7.494) non smette di crescere (+4,4%) seppure meno rapidamente degli studenti non comunitari nel loro complesso, di cui rappresentano oggi l’11,4%.
La filosofia dei distretti industriali
Non stupisce che la distribuzione sul territorio si concentri nelle regioni economicamente forti, Lombardia (23%), Toscana (19%) e Veneto (13%), terminali delle reti lunghe e dalla tradizione dei distretti industriali. Nel Mezzogiorno risiede invece solo l’11,5% della comunità, un dato anche lievemente inferiore agli altri nuclei non comunitari.
Venendo alla distribuzione delle imprese, il tessuto imprenditoriale evidenzia una forte concentrazione e le prime 5 province coprono in pratica il 40% delle oltre 50 mila aziende individuali e non.
In testa alla classifica risulta saldamente Milano, che ospita l’11,1% degli imprenditori italocinesi. Seguono le due province toscane, Firenze e Prato, dove hanno sede rispettivamente il 7,8% e il 10,1% delle imprese individuali guidate da cittadini cinesi. Da notare che a Prato le 5.271 aziende cinesi rappresentano quasi i tre quarti delle imprese individuali dell’area. A seguire Roma e Napoli con un incidenze rispettivamente del 6,7% e 5%.
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Quello che distingue maggiormente l’imprenditorialità cinese dal tessuto economico delle altre comunità è sicuramente la sua specializzazione per settori, con la conseguenza di pesare di più come rete a livello di comparto. Pressoché assenti dall’agricoltura e del mercato delle costruzioni, gli imprenditori individuali italocinesi, pur figurando prevalentemente impegnati nel settore del commercio e dei trasporti (37,8%), “dominano” infatti le attività manifatturiere: qui opera circa un terzo di loro ma con un’incidenza, sul totale degli imprenditori non comunitari, che raggiunge il 57,5%. Analogamente, una quota di micro-imprenditori cinesi pari al 13,6% è presente nel settore della ricettività alberghiera e pesa per oltre un terzo (32,7%) delle attività espresse da imprenditori provenienti da Paesi terzi.
Incrociando concentrazione economica e concentrazione geografica, è come se la comunità cinese in Italia, nell’arco della sua prima generazione, avesse adottato, re-interpretandola, la filosofia dei distretti industriali italiani degli anni Sessanta, facendo rete e sfruttando l’integrazione logistica della filiera.
La vocazione cinese all’autoimprenditorialità definisce il profilo della sua comunità ed è confermata, come cartina al tornasole, anche dal basso livello di sindacalizzazione dei lavoratori cinesi, pari a un misero l’1,3% dei tesserati stranieri (e a un ancor più misero 0,7% nel caso della sola CGIL).
La Cina non è più così vicina
Il dato che definisce meglio il livello d’integrazione economica della comunità è comunque il netto calo registrato nelle rimesse alla madrepatria: tra il 2012 ed il 2017 i flussi di denaro inviati dall’Italia verso la Cina è passato infatti da 2.674 milioni di euro a 136 milioni. In pratica hanno smesso di mandare soldi a casa, un trend che non trova riscontro presso nessun’altra comunità.
Le concause che si possono tirare in ballo — l’exploit cinese, il ciclo economico, i legami famigliari, le condizioni di vita e di lavoro — sono ovviamente molteplici ma tutte convergerebbero verso una sempre maggior affezione e radicamento nel tessuto economico nostro Paese.
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