Rosa Melgarejo, 58 anni, peruviana, da 30 in Italia, presidente del Gruppo Infermieri del mondo, chiede ancora quello che dovrebbe essere un diritto elementare già acquisito: «Un infermiere dovrebbe essere riconosciuto dalla divisa che indossa non dal colore della pelle. Possiamo avere mille colori ma siamo tutti professionisti che possono aiutare questo Paese».

Quando è arrivata in Italia?

«Sono passati 30 anni. Ero venuta in vacanza. Ho conosciuto mio marito che è italiano e non me ne sono più andata. Già in Perù stavo studiando Scienze infermieristiche. Qui ho completato i miei studi e ho fatto anche un master di gestione ospedaliera. Allora c’erano pochissimi peruviani in Italia. Bastava il visto turistico per entrare».

È cittadina italiana?

«Mi sono sposata qui. Ho tre figli italiani. Con la cittadinanza ho potuto fare anche un concorso pubblico. Cosa che è ancora impedita a tanti miei colleghi infermieri professionisti solo perché non hanno la cittadinanza. Lavoro al reparto di Nefrologia di un importante ospedale pubblico milanese. Ma ho lavorato anche all’Istituto dei Tumori, mi sono occupata di malati sieropositivi… Sono orgogliosa di quello che ho fatto per i pazienti italiani».

Ed è sempre stata trattata in modo corretto?

«È capitato che alcuni pazienti non mi volessero vedendo che ero straniera. Non credevano che fossi un’infermiera professionale. Che non fossi capace di garantire la qualità del mio lavoro. Mi sono anche sentita dire che rubavo il lavoro agli italiani. Quando nella sanità in realtà c’è più lavoro che personale. C’è spazio per tutti  visto che ogni infermiere che va in pensione non viene sostituito. Se si è in meno alla fine si fa fatica a garantire il servizio. Ho anche sentito chiedere da alcuni pazienti a medici sudamericani, se operavano con il machete. Ma questo oramai è un Paese multietnico e molta gente ha capito».  

Nasce da questo Infermieri del Mondo?

«È nata da un episodio a cui ho assistito. La figlia italiana di una mia collega boliviana, infermiera pure lei, al suo primo giorno di lavoro si è sentita chiedere da una malata: “Capisce la mia lingua?”. Lei non voleva più lavorare. Sua madre ha cercato di spiegarle che per tutta la vita le sono capitate cose simili. Da lì ho capito che dovevo costituire un gruppo in cui potessimo confrontarci, condividere le esperienze di lavoro, al di là delle nazionalità e della cultura. Così è nata Infermieri del Mondo, abbiamo anche una pagina Facebook con quasi 400 iscritti. Vogliamo contare perché siamo professioniste, con un grande bagaglio di esperienza come le nostre colleghe italiane. A maggio abbiamo fatto un convegno. C’erano metà infermieri italiani e poi da tutto il mondo. Anche nel direttivo ci sono persone di ogni Paese».

Quali sono i vostri obiettivi?

«Lavorare sul territorio. Facendo anche volontariato. In altri Paesi basta la divisa per essere riconosciuti, in Italia a volte ancora no. Altrove se indossi il camice da infermiere non chiedono se sei capace di lavorare. E poi se non sei cittadino italiano, anche se hai tutte le capacità, non puoi lavorare negli ospedali pubblici. Non conta il colore della pelle. Contano le lauree che abbiamo». 

Gli infermieri stranieri sono discriminati sul posto di lavoro?

«Nessuno straniero occupa una posto dirigenziale, è un vero problema. Anche se hai i requisiti per fare un concorso pubblico la carriera è limitata. Si può arrivare fino a un certo punto ma senza andare oltre. E poi nel settore privato ci sono casi di discriminazione economica. Qualche clinica cerca di pagare meno gli stranieri solo perché non sono italiani. Per questo vogliamo diventare un’associazione a tutti gli effetti. Vogliamo creare anche uno sportello legale e di tutela dei diritti nel nostro lavoro. Ci sono delle cooperative che giocano con i nostri bisogni. Noi vogliamo solo essere trattati per le nostre capacità. A Cancun in Messico, ad ottobre, parteciperò al congresso mondiale degli infermieri. Mi hanno invitato ad andare con la bandiera italiana perché sono italiana. È la dimostrazione di quello che possiamo fare noi migranti».

Alla fine si sente ancora peruviana?

«Sono stata felice quando il Perù è andato in finale alla Coppa America di calcio. Ma quando sento l’inno italiano mi viene da piangere. La mia vita e la mia famiglia è qui ma le mie radici sono in Perù anche se ci sono andata molto poco in questi anni. A casa si mangia sudamericano e siciliano come mio marito che è di Messina. Qui non ho parenti. Frequento poco la comunità. Ma in casa parliamo anche spagnolo. È una ricchezza avere due culture e due lingue. A mio figlio che è nato in Italia un giorno a scuola gli hanno chiesto: “Quando sei arrivato?”. Sono cose che non dovrebbero succedere».