Figlie di una difficile storia migratoria, in bilico tra promesse di riconoscimento e marginalizzazione, le tribù del Fezzan sono, oggi, attori nevralgici del Sud libico.

Una sorta di terra di mezzo in cui si strutturano le reti criminali e i gruppi terroristici impegnati nei vari traffici illeciti, tra cui quello di migranti. Se da un lato è innegabile la collusione di alcuni di questi gruppi con le bande criminali, dall’altro va evidenziato come esse siano, anche grazie allo loro storia migratoria, gli attori più radicati sul terreno e che meglio conoscono le complesse dinamiche di questa area.

Da questo punto di vista sarebbe impossibile riuscire a mantenere un effettivo controllo dei porosi confini libico-saheliani senza alcun supporto da parte delle popolazioni locali. Affinché ciò sia possibile è necessario tenere conto di alcune criticità.

Spesso i traffici illeciti sono l’unica fonte di sostentamento di molti gruppi che abitano questa regione. Lo scoppio di combattimenti tra tribù arabe, Tebu e Tuareg in tutto il Sud può essere in gran parte attribuito alla concorrenza per i flussi economici derivati dalle rotte di contrabbando e dall’accesso alle risorse scarse del territorio. Per questo motivo un approccio esclusivamente securitario non potrebbe avere altro risultato se non quello di incentivare le popolazioni locali a stringere ulteriori accordi con i network criminali e con le formazioni terroristiche presenti nella zona, mettendo a rischio qualunque tentativo di ricomposizione dei legami di fiducia tra le tribù e le possibili future istituzioni centrali libiche e acuendo la competizione per le risorse.

Come poter tramutare, dunque, le tribù del Fezzan in alleati per le politiche di gestione dei flussi migratori e più in generale della stabilizzazione del paese?

Innanzitutto sarà necessario favorire un dialogo tra le varie istanze locali capace di isolare le fazioni maggiormente estremiste. Questo potrà avvenire solo con un coinvolgimento “formale” di questi attori nelle trattative per una possibile pacificazione dell’area, innalzandole, dunque, al ruolo di interlocutori politici.

L’ultimo tentativo concreto è stato esperito nel febbraio del 2017 dall’allora ministro dell’Interno italiano Marco Minniti che si era reso garante dell’intesa, firmata al Viminale, con i leader tribali del Fezzan, tra cui quelli dei Tebu, dei Suleiman e dei Tuareg. Prima ancora, la Comunità di Sant’Egidio, aveva supportato un incontro tra i rappresentanti delle tribù dei Suleiman e dei Tebu della città di Sebha che avevano sottoscritto una dichiarazione congiunta in cui si affermava la volontà di ristabilire la fiducia reciproca e di lavorare insieme per la convivenza pacifica. Al momento l’impegno italiano non ha portato a risultati stabili e duraturi e i conflitti sono ripresi, ma la strada appare ancora quella giusta, nonché l’unica percorribile.

Direttamente collegato a questo aspetto è quello del sostegno alla ripresa economica. Giova fare un passo indietro. La rivoluzione libica del 1969, grazie alla fortunosa coincidenza del boom petrolifero, ha avuto al suo attivo dei risultati non comuni tra i paesi in via di sviluppo dell’area mediterranea ed africana. La presenza di grandi giacimenti di idrocarburi ha permesso alla Libia di operare un take off impensabile negli anni precedenti, con un impetuoso sviluppo dell’economia, divenuta esportatrice di capitale e importatrice di manodopera. Nonostante le numerose crisi, come quella degli anni Ottanta, acuita dal deteriorarsi delle relazioni con gli Stati Uniti, e quella degli anni Novanta, conseguente all’impatto delle sanzioni, le copiose risorse del sottosuolo hanno permesso alla Libia di avere indicatori nettamente migliori degli altri paesi, con un reddito pro capite di gran lunga più elevato di quello dei vicini del Nord Africa.

Oggi, dopo più di sei anni di instabilità, l’economia libica è in pezzi. Basta osservare alcuni dati. Il Prodotto interno lordo, nel 2010, era pari a circa 75 miliardi di dollari. Oggi è più che dimezzato. Tale calo è conseguente alla diminuzione della produzione del greggio – oggi quasi un quinto rispetto al 2010 – cui il Pil libico è legato quasi totalmente. Il tutto è aggravato dal vistoso calo dei prezzi sul mercato mondiale e dalla cattiva gestione dei proventi della vendita degli idrocarburi.

Questi, infatti, a tutt’oggi vengono in parte versati sul conto della Banca centrale che ha sede a Tripoli ed è questa ad erogare gli stipendi degli statali che sono circa l’80% della forza lavoro del paese. Con il calo dei proventi, gli introiti non sono più sufficienti a pagare le spese correnti. Inoltre, gli esborsi per gli stipendi sono saliti del 24-40% sulla spesa pubblica totale, tra il 2012 e il 2013, quando la maggior parte delle milizie sono state messe sul libro paga dei vari governi. Le conseguenze sulla popolazione sono drammatiche. L’inflazione è salita al 28% nel 2017, aumento principalmente guidato da quello dei prezzi alimentari. Il reddito pro capite è sceso a meno di 4.500 dollari rispetto ai quasi 13.000 dollari del 2011. Molti lavoratori non percepiscono da mesi gli stipendi. A questo fa da sfondo una gravissima crisi di liquidità che causa tensioni e proteste tra i cittadini che, anche qualora riuscissero a percepire un salario, non potrebbero ritirare i soldi dalle banche perché le casseforti sono vuote.

Oggi, su una popolazione di circa 6 milioni di abitanti, 3 milioni di persone stanno soffrendo in modo più o meno rilevante le conseguenze negative della crisi politico-istituzionale e di sicurezza del paese e più di un milione ha bisogno di assistenza umanitaria. Non è difficile capire perché oggi l’economia illegale sia divenuta il core business del paese, specie nel Sud, da sempre tra le zone più povere e arretrate della Libia. Il traffico di esseri umani genera ogni anno guadagni che superano il mezzo miliardo di dollari diviso tra le varie tribù, a cominciare da Tebu, Tuareg e Awland Su- leiman.

Il venir meno del un controllo governativo e l’aumento del contrabbando hanno quasi distrutto l’economia della depressa zona meridionale. Se durante il regime di Muammar Gheddafi il contrabbando illegale valeva il 40% dell’economia locale, oggi è salito al 90%, tanto che pare essere divenuto un lavoro, più che un crimine. Per questo è quantomai necessario offrire alle popolazioni del Sud uno sviluppo economico alternativo.

Per decenni, e fino al 2011, nelle zone del Fezzan c’erano aziende agricole statali che sfruttavano le sorgenti sotterranee e tecnologie innovative per l’irrigazione. Oggi tutto questo non esiste più. Una ricerca del Centre for Development Innovation riporta, tra le altre cose, un esempio emblematico. Il capo di una tra le più grandi aziende agricole del Sud libico ha raccontato che nel 2010 fatturava 25 milioni di dollari, aveva 250 addetti, 120 campi di grano, 6.000 ettari di terra coltivata, 15.000 pecore, 500 mucche e 300 cammelli. Un anno dopo lo scoppio del conflitto aveva solo 300 ettari coltivati e mille pecore. Tanto basta per capire la semplicità dell’equazione: solo il supporto all’economia legale può ridurre l’attrattività di quella illegale. In questo contesto la ripresa del settore agricolo è evidentemente inquadrabile in una prospettiva di medio-lungo periodo e richiede una preliminare “epurazione” del Sud dai gruppi di trafficanti e dalle organizzazioni jihadiste. Nel breve periodo sarà invece necessario dotare le tribù di fonti di finanziamento alternative. Questo potrebbe avvenire solo con una necessaria riflessione sui meccanismi di redistribuzione della rendita derivante dai proventi degli idrocarburi.

Nonostante la crisi, causata dall’instabilità che è seguita alla caduta di Gheddafi, infatti, la Libia continua a essere uno dei paesi africani potenzialmente più ricchi grazie alle risorse del sottosuolo. Una ripresa della produzione e una migliore redistribuzione dei proventi anche alle tribù del Sud, che prima non partecipavano – se non marginalmente – alla divisione degli introiti gestita dal rais, potrebbe essere un buon viatico per sottrarre molti gruppi alla criminalità organizzata. Infine, per dare una ulteriore spinta alla ripresa economica del Sud è necessario riavviare ad una “redistribuzione controllata” dei salari alle popolazioni, magari facendo perno sulle municipalità e sul loro ruolo di controllo e gestione.

Se il supporto all’economia legale è fondamentale per il coinvolgimento degli attori locali in un possibile processo di State building, altrettanto im- portante è il loro riconoscimento “sociale”, da sempre negato dal rais. Per questo sarà necessario riaprire il doloroso capitolo della cittadinanza libica. Per molti Tuareg e Tebu, ad esempio, trovare lavoro “legale” è impossibile poiché non posseggono i documenti necessari per viaggiare o incassare stipendi: l’emarginazione da parte del vecchio regime li ha relegati nell’illegalità. I flebili legami di cittadinanza rispetto al resto della popolazione libica hanno permesso loro scarsissime opportunità economiche al di fuori dei traffici illeciti. Questo vale soprattutto per i più giovani che sentono, ancora di più, il peso della mancata integrazione. Sovente, non hanno certificati di nascita né carte di identità. Non compaiono in nessun registro. Come racconta il regista libico Khalifa Abo Khraisse

La maggioranza di loro semplicemente non esiste per il governo nonostante il fatto che, come i loro genitori e i loro nonni, siano nati e vissuti qui. Il deserto è la loro patria, e i confini che lo dividono sono venuti dopo di loro: nessuno vuole riconoscerli come cittadini, ma questa è sempre stata la loro terra, prima ancora che chiunque altro ne reclamasse la proprietà.

Non servono altre parole per spiegare l’impellenza e la gravità del pro- blema e la necessità di affrontare i temi sociali e d’integrazione politica di queste minoranze, offrendo loro diritti politici.

Vi è poi un ulteriore aspetto, spesso sottovalutato. Come si è avuto modo di accennare, i giovani attivisti libici, tra cui anche quelli appartenenti alle minoranze Tebu e Tuareg, hanno dato vita a manifestazioni e proteste comuni per chiedere una più equa distribuzione delle risorse e la fine del- la discriminazione etnica e del clientelismo. Nel tempo questi movimenti hanno acquisito una certa importanza, spesso trascurata anche dai mem- bri più anziani. I giovani, continuando a protestare, hanno mostrato una grande perseveranza e una certa solidità. Da ciò è facile dedurre che una politica di integrazione sociale ed economica degli attori del Fezzan – e in particolare delle minoranze Tebu e Tuareg – capace di valorizzare la classe giovanile, potrebbe essere la precondizione necessaria per ridurre l’impatto della criminalità organizzata e rendere le tribù attori capaci di contribuire attivamente al processo di pacificazione libico e, prima ancora, alleati importanti nelle politiche per la lotta alla criminalità organizzata che lucra sul traffico dei migranti.

Detta in altri termini, possiamo pensare di costruire barriere al Sud della Libia, ma questo non basterà per contrastare il contrabbando di esseri umani, finché le minoranze e le tribù che abitano in queste regioni non saranno realmente integrate nel “nuovo Stato” divenendo così driver per i processi di coesione sociale tra i loro membri e tra questi e le istituzioni. Dovrebbe essere questo uno dei punti di cardine da cui la comunità internazionale, e l’Italia in primis, dovrà partire per dare un senso alla conferenza per la Libia che si è svolta a Palermo il 12 e 13 novembre del 2018. Viceversa qualunque tentativo di pacificazione che si ostini a non coinvolgere gli attori locali, limitandosi ai “vecchi leader” che rappresentano solo una parte del paese, con un controllo limitato del territorio, rischierà di risolversi in una mera photo opportunity, destinata a ingiallire col passare del tempo.