Francesca Rigotti
Migranti per caso. Una vita da expat
(Raffaello Cortina Editore, 2019)

Siamo tutti migranti. Da quando i nostri avi dal cuore dell’Africa hanno iniziato ad espandersi nel mondo, non ci siamo più fermati. Figuriamoci in un mondo globalizzato come oggi dove muoversi è più facile. Muri a parte. Ma non tutti i migranti sono uguali. C’è chi rischia la vita salendo su un barcone o viaggiando attaccato al semiasse di un camion. E chi deve solo organizzare al meglio il viaggio a partire dal biglietto aereo. Sono i cosiddetti expat, coloro che si spostano in un altro Paese con il passaporto in regola per un nuovo lavoro, un amore e una nuova vita. Anche loro sradicati, in cerca di una nuova identità, con un conflitto culturale da vivere ogni giorno sulla pelle. Ne sa qualcosa Francesca Rigotti, che negli anni Ottanta lascia l’Italia per Gottinga in Germania. E si traferisce poi nella Svizzera italiana dove oggi ha una cattedra di Filosofia all’Università. Nel suo libro c’è vita vissuta, riflessioni sulla condizione di expat e un costante raffronto con la condizione di chi oggi consideriamo migrante. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore Raffaello Cortina pubblichiamo un estratto dal libro. Fabio Poletti

Quando giunsi a Göttingen, nei primi anni Ottanta, non c’era Internet, che sarebbe arrivata vent’anni dopo e ci avrebbe messo il suo tempo a diffondersi. C’erano la posta cartacea e il telefono. Il quotidiano, se ti abbonavi come feci io per un periodo, arrivava ogni due o tre giorni, varie copie insieme. Adesso c’è Internet e il giovane migrante che ho conosciuto in Italia davanti a un supermercato, Frank, mi ha appena scritto una e-mail. La differenza tra Frank e Francesca, anche se entrambi usano i mezzi di comunicazione digitali, è che Frank è un migrante e Francesca una expat, una espatriata detto però nella forma anglicizzata sopra illustrata. Ciò significa che Francesca ha i documenti in regola, ha il passaporto, un conto in banca, anzi più di uno, è cittadina di un paese europeo e può muoversi a suo piacimento e senza difficoltà in Europa e in molti altri paesi. Ha un lavoro retribuito, paga le tasse, ha diritto al trattamento sanitario e alla pensione e se vuole espatriare, esce dalla patria qualunque essa sia, è libera di farlo e nessuno le punta un’arma di fronte o alle spalle, nessuno le erge di fronte un muro di cemento o di filo spinato e nessuno la rinchiude, come se fosse una delinquente, in un campo profughi o in una struttura apposita per rifugiati e migranti.
Frank invece è un migrante; è povero, non ha documenti del suo paese; è scappato dalla Nigeria e parla un inglese non comprensibilissimo ma abbastanza chiaro; arrivato sulle coste della Libia è stato sbattuto su un gommone; approdato in Italia e sistemato alla bell’e meglio in un campo raccolta profughi, non sa dove, è stato poi ancora messo su un pullman che l’ha depositato alla fine della corsa a Omegna, Piemonte. Omegna, località un tempo amena sull’amenissimo lago d’Orta, meta di letterati e filosofi: Stendhal e Balzac e Nietzsche e Hemingway. Omegna ora centro di un bel nulla se non di una serie di orrendi capannoni industriali semideserti che soffocano quel poco che rimane del centro storico. Omegna, il luogo del suo campo, il suo alloggio con giovani e meno giovani in attesa di una decisione sulla loro sorte.
Io sono una expat, Frank è un migrante. Migrante – una volta si diceva emigrante, ma pare che migrante, senza prefissi, abbia un significato più esteso – lo fu anche mio nonno materno, che di cognome faceva Curiazio e di nome Francesco (nato nel 1888, detto Ciccillo). Francesco Curiazio emigrò negli Stati Uniti dopo la Prima guerra mondiale, quando dal matrimonio con sua moglie Francesca (1889, detta Franceschiella) erano già nati Pasquale (1916, detto Pasqualino) e Giuditta (1918, detta Gina). Tornò una volta al paese, e in quella occasione mise incinta sua moglie, mia nonna, di quella che sarebbe stata la sua terza e ultima creatura, mia madre (1921, Donatella, detta Nina). Tornò poi definitivamente quando mia madre aveva 3 anni; e così la bambina si trovò improvvisamente spodestata, da uno sconosciuto, dal letto matrimoniale che divideva con sua madre (“Vattene! Torna a casa tua!” gli gridava in dialetto), e messa a dormire in un altro letto grande con sua sorella Gina e la loro zia, nonché sorella di mia nonna, Eleonora (1891, detta Norina). Pasqualino dormiva nella stessa camera ma in un letto singolo, dietro un paravento. Tutto questo avveniva tra Terlizzi (Puglia, provincia di Bari) e Brooklyn, New York City, tra il 1918 e il 1924 circa.
Mio nonno Francesco e Frank sono migranti, Francesca è expat. Non siamo turisti, nomadi o esuli, né io né loro. Ci siamo trovati a migrare, cioè a cambiare, che dovrebbe essere il senso primario del verbo latino migro, dove la forma mig- sarebbe un’estensione della radice *mei- “cambiare”; anche il greco antico ha una forma simile in ameibo (αμείβω) che significa cambiare, anche cambiare residenza.
Sarà così grave voler cambiare posto? O pensiamo di essere veramente alberi particolari, non trapiantabili? Ma non corriamo troppo: ci occuperemo di questa immagine nella parte su migrazione e metafora.
Francesco e Frank, uomo bianco e uomo nero che cambiano residenza, che vanno entrambi all’estero in cerca di condizioni di vita migliori. Migranti economici? Quelli che “no grazie, tornatevene a casa vostra”, il secondo; quelli che “sì venite pure, ci serve manodopera a buon mercato”, il primo? Francesca expat, all’estero per lavoro? Un lavoro prima di arrivare a Göttingen però non l’aveva, l’ha trovato lì, all’università, come ricercatrice scientifica, dopo aver insegnato per un po’ l’italiano alla cosiddetta università popolare; in Germania e prima della creazione dell’Unione Europea. Aveva trovato un lavoro e l’assistenza sanitaria e anche gli assegni familiari per i figli, per concedere i quali mai nessun ufficio le aveva chiesto la cittadinanza. Figli di padre tedesco e madre italiana in Germania, non marito e moglie perché la sanzione giuridica non venne mai, se la dimenticarono lungo la strada della loro vita comune. Per queste situazioni la lingua tedesca ha una parola particolare che mi è sempre piaciuta: Lebensgefährte al maschile, e al femminile Lebensgefährtin: compagno/compagna del viaggio della vita.
Tra il migrante Frank e l’expat Francesca chi sta meglio? Dal punto di vista dei beni materiali, la seconda. Ha un lavoro, una casa e una famiglia che ti tira fuori dai guai, o ti ci mette, dipende. Ha uno status sociale stabile e considerato rispettabile. Se poi la domanda riguarda chi dei due sia più felice, è arduo rispondere.