Nell’economia della conoscenza il lavoro valorizza il capitale umano e trasforma la conoscenza acquisita (formazione) in competenza lavorativa. Vero o falso? Nella narrazione manageriale è senz’altro così, ci hanno spiegato che apprendimento, competitività e innovazione vanno a braccetto e che alla fine la conoscenza spalancherà le porte della agognata carriera.

La realtà è un po’ diversa e gli ostacoli — economici, culturali, sociali
— che si frappongono tra le persone e i loro obiettivi si rivelano spesso insormontabili. Sicuramente oggi è così per i lavoratori stranieri nei Paese industrialmente avanzati, se guardiamo al loro livello di istruzione e lo confrontiamo con quello dei “nativi” e con la qualifica professionale raggiunta.

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Questa infografica tratta dall’ultimo International Migration Outlook (dato 2017) mostra come nella maggioranza dei Paesi OECD (17 su 29) la proporzione di lavoratori con educazione superiore (università e oltre) sia più elevata tra la popolazione straniera che tra quella nativa. En passant osserviamo che tra i soli 28 paesi UE la percentuale di laureati figura per ora magicamente in equilibrio: 34% alla pari.

Si tratta ovviamente di situazioni molto diverse, che possiamo raggruppare, a seconda che la popolazione immigrata presenti mediamente un livello di istruzione:

  1. più elevato della popolazione nativa: sono Paesi che legano la loro storia all’immigrazione, sia essa fortemente regolamentata (Canada, Australia, Svizzera) sia aperta alle ondate post-coloniali di rifugiati, espatriati economici, cervelli in fuga che una società globalizzata accoglie (Regno Unito, Svezia, Portogallo). Aggiungiamo i Paesi dell’Est Europa (Polonia, Ungheria, Rep. Ceca, ecc.) tradizionalmente refrattari all’immigrazione di massa, soprattutto extraeuropea.
  2. pari (o di poco inferiore) alla popolazione nativa: rientrano in questo profilo Paesi come Francia, Germania, Paesi Bassi o gli stessi Stati Uniti, Paesi dove l’immigrazione è parte dell’identità nazionale stessa o della sua evoluzione recente, oggi invariabilmente al centro di società multiculturali complesse.
  3. significativamente inferiore alla popolazione nativa: sono soprattutto Paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Grecia), in passato la prima linea dell’accoglienza, un hub per i richiedenti asilo dall’Africa e dal Medio Oriente, prima che la cortina europea calasse sulle coste del Mediterraneo.

Ma attenzione: lavoratori stranieri laureati e well educated non significa affatto immigrati occupati proporzionalmente in ruoli e attività che richiedono questi stessi skill.

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Come si può vedere in questa infografica infatti, in tutti i Paesi OECD (con una sola eccezione: la Svizzera) i lavoratori del posto sono comunque sovra-rappresentati nei ruoli professionali apicali mentre gli immigrati risultano più frequentemente sovra-qualificati, ossia occupati in lavori che richiederebbero una qualifica o un titolo di studio inferiori a quello in loro possesso.

Naturalmente, l’istruzione formale è solo un indicatore delle competenze effettive, la conoscenza della lingua e della cultura del posto hanno il loro peso ma fino a un certo punto: si calcola che un immigrato in un Paese OECD abbia in media il 15% in più di possibilità di essere sovra-qualificato per il lavoro che svolge, percentuale che scende al 12% al netto dei fattori culturali.
Paradossalmente, i lavoratori immigrati risultano sovraqualificati anche o soprattutto in Paesi come Italia (+34% di possibilità) dove il livello di istruzione è mediamente basso (in entrambi i gruppi) e le barriere culturali e sociali possono contare in proporzione di più rispetto ai limitati skill richiesti dal mercato.

Ma in Italia, purtroppo, le cose non migliorano concentrandosi sul segmento di chi ha concluso un percorso universitario in facoltà tecnico-scientifiche (STEM, secondo l’acronimo anglosassone); il loro peso è sostanzialmente lo stesso tra gli occupati con laurea della popolazione italiana (24,%), UE (20,2%) e Extra UE (24,25%). Molto diverso è invece il lavoro che andranno a fare: se più del 90% degli italiani con un titolo STEM svolge una funzione elevata (high skill) coerente con il titolo di studio (come circa l’80% dei “non STEM”), nel caso degli extracomunitari la percentuale crolla al 26,0% (24,4% per i “non STEM”).

Detto in poche parole, il cosiddetto “educational mismatch”, cioè la dispersione di saperi e competenze formali che non vengono sfruttate dal mercato, non potrebbe essere più grave e sistematica.

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