Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, ha da poco pubblicato il suo ultimo libro, La verità, vi prego, sul neoliberismo – Il poco che c’è, il tanto che manca. Dati e considerazioni per dimostrare che, nonostante si tenda a imputare al neoliberismo la responsabilità di qualunque evento negativo — «dall’incendio della Grenfell Tower a Londra al crollo del ponte Morandi a Genova» — di mercato se ne vede ben poco, mentre lo Stato è sempre oltremodo invasivo. Mingardi dedica una parte del saggio all’immigrazione, inquadrando il tema da una prospettiva liberale e spiegando anche “perché gli immigrati non ci piacciono”.
Una politica di scarso spessore non esita ad attribuire a chi arriva da altri Paesi la colpa di problemi che di fatto sono preesistenti. L’immigrazione è così usata come una foglia di fico dietro la quale nascondere l’inadeguato svolgimento delle funzioni cui lo Stato è preposto.
«Pensiamo alla sicurezza e ai problemi dell’ordine pubblico, al degrado nel decoro urbano, alle case popolari che vengono attribuite sulla base di criteri politici, ai tanti problemi della scuola. Nessuna di queste cose è stata causata dai flussi migratori: le inefficienze e i problemi della pubblica amministrazione sono una realtà nota e arcinota, in Italia, da anni. Ma la presenza dei migranti li rende, in qualche modo, più visibili». Ecco, dunque, che gli immigrati divengono il capro espiatorio di politici non all’altezza del ruolo che ricoprono. «I fallimenti dello Stato — nel tenere pulite le nostre città, nel garantire l’ordine pubblico, nell’organizzare scuole da cui le persone escano avendo imparato qualcosa — sono macroscopici. Una classe politica seria cercherebbe di affrontarli. Ma guardare il dito anziché la luna, parlare di immigrazione anziché di sicurezza, ordine pubblico, scuola, è più facile e, nel breve, utile a raccattare voti», scrive l’autore del libro. In questo modo, tra l’altro, si distrae l’attenzione dalla pessima situazione economica in cui versa il Paese.
I temi, o meglio gli slogan, usati oggi nel dibattito pubblico per creare ostilità verso l’immigrazione, anche quella regolare, sono individuati chiaramente nel saggio del direttore dell’Istituto Bruno Leoni. Innanzitutto, secondo l’autore, gli italiani non riescono a emanciparsi dall’elemento psicologico della paura del diverso, dell’estraneo. E questo rappresenta un terreno fertile per rafforzare l’idea che una maggiore immigrazione coincida automaticamente con un aumento dei crimini. A ciò concorrono talora pure i media: gli stranieri hanno spazio sui mezzi di informazione per lo più in contesti negativi, quando sono responsabili di fatti violenti in contesti di degrado sociale e, più specificamente, di determinati crimini che possono essere interpretati come il riflesso di una diversa cultura.
Per smontare questa narrazione, Mingardi espone i dati che dimostrano l’equiparabilità della propensione a delinquere degli immigrati regolari rispetto agli italiani. Al contrario, tale propensione «è vistosamente più elevata (80%) nel caso dei clandestini», cioè di persone che vivono in territorio italiano ma sono sprovvisti dei necessari documenti. Un dato che non sorprende se si considera che gli irregolari per lo Stato non esistono, non possono frequentare corsi di formazione e, soprattutto, non possono avere un’occupazione regolare. Al riguardo, Mingardi cita lo studio dell’economista Paolo Pinotti, il quale, analizzando il tasso di criminalità degli stranieri dopo il decreto flussi del 2007 che consentì la legalizzazione di un buon numero di irregolari, mostra come l’incidenza si sia dimezzata l’anno successivo, per quanti sono stati messi in regola, mentre sia restata invariata fra chi è rimasto “clandestino”.
Le conclusioni che ne discendono sono importanti: «il costo-opportunità di delinquere è assai più elevato se si mette a rischio la possibilità di trovare un impiego e condurre una vita alla luce del sole, di quanto non lo sia se ciò pare un sogno irraggiungibile». Peraltro, Mingardi non manca di sottolineare che «ogni crimine è almeno in una certa misura un fallimento di chi dovrebbe prevenirlo» e, quindi, concentrare l’attenzione sugli autori del reato finisce per occultare le inadempienze dello Stato, cioè del soggetto preposto a garantire ordine e sicurezza pubblica.
Al tema precedente è strettamente connesso quello della percezione del numero degli stranieri presenti nel Paese. Il saggio rileva che
«secondo Eurispes 2018 solo il 28,9 per cento degli italiani sa che la percentuale di stranieri sulla nostra popolazione è attorno all’8 per cento. Più della metà è convinta che quella proporzione sia infinitamente più grande. Il 35 per cento degli italiani crede che fra noi vivono il 16 per cento di stranieri arrivati da ogni parte. E il 25,4 per cento degli intervistati crede addirittura che gli stranieri arrivino al 24,5 per cento, uno straniero ogni quattro abitanti del nostro Paese».
Al riguardo, l’autore osserva come l’arrivo in un Paese di gente che viene dall’estero non sia un fatto in sé negativo: nel testo si fa l’esempio di quello spicchio del mondo, il più ricco e creativo — Cupertino, in California — dove metà della popolazione è nata in un altro Stato. «E allora la questione è altrove, se il Paese che accoglie è economicamente vitale o se invece è un Paese la cui economia è stagnante e ciascuno vuole difendere con i denti il pochino che ha in serbo». Anche in merito a questo tema si può ritenere che una politica incapace di reagire alla perdurante stagnazione economica — il Paese presenta un debito pubblico pari al 132% del PIL e una situazione di fragilità che lo espone a potenziali shock economico-finanziari — abbia ogni interesse ad alimentare il timore della gente in ordine al fatto che, aumentando il numero dei commensali, le fette della torta del welfare pubblico si facciano ciascuna più piccola.
«L’immigrazione crea ricchezza poiché aumenta l’offerta di mani, braccia e teste a vantaggio dell’economia», spiega Mingardi, ma gli effetti positivi sulla crescita non sono «necessariamente immediati e hanno bisogno di tempo per manifestarsi», mentre gli effetti negativi «sono localizzati e si manifestano verosimilmente al momento dell’arrivo di un gruppo di migranti, per attutirsi nel medio termine». Anche per questo motivo «le politiche “restrittive” hanno tanto spazio nel dibattito». Peraltro, l’impatto positivo dell’immigrazione è stato più volte rilevato anche dall’ex presidente dell’Inps Boeri: il nostro sistema pensionistico e assistenziale, per come è attualmente strutturato, risulterebbe insostenibile senza l’apporto di “nuovi italiani”.
A fronte delle considerazioni di Mingardi, ci si chiede perché l’opposizione ricorra sovente a motivazioni umanitarie per contrastare gli argomenti del governo in tema di immigrazione e non sottolinei, invece, forse con maggiore efficacia, come gli stranieri contribuiscano al welfare e alla ricchezza di tutti i cittadini; perché non mostrino come «dove non c’è un mercato, ci sarà un mercato nero», e quindi la domanda di lavoro non soddisfatta attraverso i canali legali tenderà a spostarsi «su una tipologia di immigrazione irregolare»; perché non rimarchino i costi connessi ai controlli sull’immigrazione, anche in termini di libertà sottratta agli stessi cittadini. Forse la spiegazione dei motivi per i quali questi temi non sono usati per contrastare una certa narrazione governativa è in una frase del libro di Mingardi: «Se vogliamo meno immigrazione illegale, dobbiamo essere pronti ad avere più immigrazione legale». C’è oggi qualche forza politica che sia davvero pronta? Meglio lasciare in sospeso la domanda.