Massimo Gramellini, torinese, giornalista, scrittore e conduttore televisivo. Dopo quasi vent’anni a La Stampa dove crea la rubrica quotidiana di commenti “Buongiorno”, nel 2005 passa al Corriere della Sera di cui è vicedirettore ed editorialista e dove pubblica quotidianamente la rubrica “Il caffè”. Dal suo libro autobiografico Fai bei sogni, il più venduto nel 2012, il regista Marco Bellocchio trae nel 2016 l’omonimo film interpretato da Valerio Mastandrea e Bérénice Bejo. Dopo aver collaborato per anni con la trasmissione televisiva di Fabio Fazio Che tempo che fa, dal 2016 conduce su Rai 3 il talk show Le parole della settimana.
Massimo Gramellini, secondo l’Onu nei prossimi 30 anni 7 milioni e mezzo di africani cercheranno di arrivare in Europa. C’è chi dice “invasione”. Come si risponde a questo sentimento di paura?
Intanto ascoltando quel sentimento, senza irridere chi lo prova sbattendogli in faccia le statistiche che dimostrano che il problema non esiste. Poi immaginando un piano di accoglienza sensato, che distribuisca i migranti su tutto il territorio senza creare concentrazioni eccessive. E infine coinvolgendo i nuovi arrivati in attività produttive, perché i guai cominciano quando tanti maschi ventenni sfaccendati si ritrovano seduti sui gradini di una piazza senza sapere che cosa fare.
Gli episodi di intolleranza verso gli stranieri non si contano più. Siamo diventati un Paese razzista? Lo siamo sempre stato?
Un pregiudizio esiste, inutile negarlo. Ma più che di razzismo parlerei di guerra tra poveri. È l’italiano in difficoltà economiche il principale “odiatore” dei migranti. Perché, a torto o a ragione, in loro vede dei concorrenti privilegiati, che in termini di case e di sussidi ricevono ciò che spetterebbe a lui.
L’accoglienza sempre, come dicono pure il Papa e la Chiesa, è praticabile? Basta essere “buoni”?
Non basta accogliere le persone per essere buoni. Poi bisogna trovare un modo per farle convivere con chi già vive qui. Accogliere e infischiarsene delle conseguenze non è bontà, ma ipocrisia.
L’immagine del piccolo Alan annegato su una spiaggia ha fatto il giro dei media del mondo. È diventata parte dello spettacolo?
Oggi già non funzionerebbe più. Quel bambino toccò il cuore di tutti, ma nel frattempo la situazione si è incancrenita. E i cuori si sono induriti.
Secondo l’Istat ci sono 1 milione 200 nuovi italiani: sono anche chirurghi, imprenditori, ricercatori, eppure invisibili… Si fa finta di non vederli, un alibi per non occuparsene?
L’integrazione è un percorso inevitabile, ma lento e lungo. Occorreranno decenni e forse secoli per smussare gli angoli e accettarsi.
I nuovi italiani che vincono nello sport o eccellono nello spettacolo vengono osannati. Siamo rimasti alla Capanna dello zio Tom, lo schiavo che ci piace solo se sta al suo posto e non disturba?
Siamo buoni finché esserlo non ci costa un sacrificio personale.
La letteratura, il teatro, il cinema, si sono sempre occupati di migrazioni e migranti. Gli intellettuali, gli scrittori, che ruolo possono avere in questo dibattito?
Potrebbero fare molto, se la smettessero di guardare dall’alto in basso chi non la pensa come loro. Bisognerebbe rivolgersi ai diffidenti, agli incerti e anche ai prevenuti. Invece si finisce sempre e solo per parlarci addosso tra noi per dirci quanto siamo buoni e bravi e quanto gli altri sono rozzi e razzisti. Agli intellettuali la gente comune fa schifo. Mentre dovrebbe essere il loro pubblico.
L’arte non rivoluziona la società. Con le canzoni, è possibile aiutare le persone a maturare consapevolezza e fare piccoli passi verso il cambiamento, ma la rivoluzione sociale avviene attraverso iniziative della politica.
Gato Barbieri, Argentina, musicista