Per questa pausa estiva, abbiamo selezionato le storie più belle dall’archivio di NuoveRadici, che ripubblicheremo nelle prossime settimane. L’intervista a Polycarpe Majoro è stata pubblicata nel giugno 2018.
Polycarpe Majoro è un medico nato in Burundi trentatré anni fa. Si è laureato all’università dell’Insubria a Varese, vive e lavora a Vanzago. Quando ci siamo incontrati alla caffetteria della stazione di Porta Garibaldi, è arrivato con la sua borsa da medico. Ha una bella stretta di mano e tanta voglia di raccontarsi: Poly, così lo chiamano gli amici su Facebook, scrive sul social media piccoli racconti in cui c’è la sua vita, presente e passata.
«Racconto la mia storia a Radici, perché è una cosa bella quella che fate. Dare voce a tutti in questo mondo, dove uno lavora tutti i giorni, dalla mattina fino alla sera e spesso anche la notte, ma dove spesso ci si sente praticamente inesistenti. Finisci in una trincea senza proiettori, e spesso ti occupi delle cose che gli altri non vogliono fare. Non tanto perché sei meno competente, ma semplicemente perché qualcuno altro ha dato un certo valore a un dato lavoro».
Lei è un medico. Dove lavora?
«Lavoro in una casa di cura, con gli anziani che hanno malattie come l’Alzheimer, il Parkinson o la demenza senile. Mi piace lavorare con i miei pazienti. Li considero una famiglia. La comunità europea è ormai composta maggiormente da anziani: 170 anziani ogni 100 giovani. Il mondo della sanità è pieno di anziani e le malattie in quell’età sono ancora più abbondanti, non solo per la grandezza della comunità degli over sessanta, ma soprattutto per la presenza di tante malattie in ogni soggetto. Quindi i medici per gli anziani sono necessari, ma se tutti continuano a dire no a questo o a quell’altro lavoro, dei vostri nonni chi si occuperà?»
Ed ecco che quando arrivano i laureati di origine straniera come me che si mettono a disposizione, non ci si dovrebbe lamentare della mancanza del lavoro. Se tutti lavorano al San Raffaele come neurochirurghi o chirurghi generali o gastroenterologi, possono anche essere soddisfatti, ma il problema è che quando, in queste o altre specialità, ci saranno due o tre chirurghi marocchini, qualcuno dirà no anche a queste ultime opportunità lavorative. Purtroppo la presenza di un immigrato in un settore lavorativo lo rende meno appetibile.
Ci spieghi meglio.
«Oggi un ragazzo che si laurea non aspira a lavorare in una casa di cura perché, a detta di alcuni, è un lavoro da immigrati. Ma andando avanti così, domani fare il chirurgo generale sarà roba da immigrati. Ma io faccio questo lavoro perché sono un medico e ne sono capace. Ho accettato con piacere di lavorare con gli anziani. Mi dispiace che non venga considerato un lavoro “degno” perché ci sono i medici immigrati a svolgerlo. Mi dispiace per una comunità dei lavoratori come quella italiana, che ho conosciuto dai libri. L’Italia si sta avvelenando da sola. Se si continua a sottovalutare quello che l’altro fa, non per come lo fa, ma perché è un immigrato a farlo, penso che i posti di lavoro continueranno a diminuire, non perché non ci saranno ma perché non si vorranno fare. Si dice spesso “ci stanno rubando il lavoro”, ma il concetto è sbagliato, non si accetta più un lavoro perché quel lavoro lo fa qualcun altro. Inconsciamente nella comunità italiana o degli autoctoni, se possiamo dire cosi, il figlio cresce sapendo quale è il lavoro degli immigrati e quando viene proposto quel lavoro è il segno di un fallimento. Chi lavora nelle case di cura? Il settanta, ottanta per cento tra medici e infermieri, sono immigrati. Torno a dire se qualcuno racconta anche della mia esistenza, come fa Radici, esco dall’invisibilità, dall’indifferenza verso il mio lavoro e vengo reintegrato nel mio valore. Il mio mestiere è salvare vite, è rendere meno dolorosa la vita delle persone».
Lei è nato in Burundi. È venuto in Italia per studiare?
«No, avevo già lasciato il Burundi, ho fatto il liceo in Kenya e poi sono venuto qui a studiare Medicina».
È in Italia con la sua famiglia?
«La mia mamma è ancora in Burundi».
Va spesso a trovarla?
«No, non posso. Purtroppo io sono uscito dal Burundi in condizioni particolari. Sono stato un bambino soldato. Per il mio Paese sono un disertore. Diciamo che la fortuna mi ha aiutato a trovare dove posso stare in pace».
Quanti anni aveva quando è entrato nell’esercito? È stato costretto?
«Avevo quattordici anni quando ho iniziato. Penso che sia stato per una combinazione di cose. Io mi sono arruolato, non sono stato forzato da nessuno. Ero piccolo, ma in quel momento era la mia fuga. Sono entrato nell’esercito per sopravvivere, e sono sopravvissuto. So che potrebbe essere stata una scelta sbagliata. Qualcuno disse: “Non è facile giudicare le decisioni di qualcuno se non si è nelle stesse circostanze di chi ha preso la decisione”. Io non saprei dire se, tornando indietro, nelle stesse circostanze, potrei fare una scelta diversa. Penso di no. Andare nell’esercito era per sopravvivere e sono contento di averlo fatto. Ho salvato la mia pelle e quella dei miei amici».
Ma era molto giovane, per una decisione così grande.
«Probabilmente non ero nel luogo giusto, né nel momento giusto per essere un bambino. Non mi era permesso. Lo so, ma per essere bimbo qualcuno te lo deve permettere. Tutti abbiamo diritto ad essere bambini. È bello vivere in un mondo in cui si ha il diritto ad essere bambino, ma lì questo diritto non c’era. Non era permesso avere un’infanzia. Entrando nell’esercito ho pensato che avrei avuto delle opportunità. Ho persino pensato di averle avute. Poi mi sono reso conto che a cercare di sopravvivere, poi non si sopravviveva così tanto. Ho iniziato a rendermi conto di ciò che stavo vivendo e ho deciso conseguentemente. Così quando ho avuto la possibilità di uscire dall’esercito ho lasciato il Burundi e sono tornato a studiare».
Come ha fatto a uscire, chi l’ha aiutata?
«Mia mamma. In quel momento, lavorava nel mondo della cooperazione. Ha conosciuto una signora italiana, e le ha raccontato la mia storia. Nell’esercito sono andato contro la sua volontà. Anzi lei ha fatto di tutto perché non ci andassi. Dopo che sono diventato un soldato, lei ha cercato di proteggermi quanto poteva. Mia madre mi ha raccontato che tutto è stato possibile perché due mamme condividevano semplicemente le loro preoccupazioni. Così ha raccontato la mia storia e la signora si è fortunatamente offerta di aiutarla perché io potessi uscire dall’esercito. Mia mamma quando me l’ha detto aveva paura, non sapeva come l’avrei presa. Difficilmente riusciva a parlarmi, io ero diventato un animale della giungla, un militare della guerra».
Ma era così convinto di quella scelta?
«Posso rimpiangere l’insieme delle cose, perché tutta una nazione era impazzita ma io, personalmente, non mi sento colpevole delle mie scelte. Ci sono delle persone capaci di ragionare, che hanno studiato la Sociologia e Scienze politiche e che possono prevedere le conseguenze delle loro decisioni. Bisognerebbe andare più a fondo, chi ha manipolato, chi ti ha fatto arrivare a questo punto? Di un’altra cosa ero convinto, però, che finita la guerra avrei ripreso a studiare».
Aveva quattordici anni. Probabilmente era consapevole e inconsapevole allo stesso tempo.
«È vero, io sono una persona che ha imparato piano piano che le persone possono essere vittime del gioco altrui anche quando sono persone mature, con la barba. Guardi come stanno manipolando questa comunità! Io non sono molto dolce, ma le posso dire che nel mondo ci sono cretini e intelligenti. Purtroppo gli intelligenti sono pochi e quando si mettono a manipolare la gente, come una goccia che cade continuamente su quel palazzo, lo scava e finisce per scinderlo in due. Un solo immenso e duro palazzo spezzato in due da una goccia. Le persone, anche se adulte, possono essere manipolate. Basta ingigantire lentamente le cose in un modo sbagliato, parlando delle persone in un modo sbagliato e si può alterare la coscienza dell’umano. Anche io ho partecipato a tutto questo. Uno vive in una società in cui battono il chiodo in un determinato modo e in una certa direzione, noi tutti siamo cresciuti sentendoci dire che certe cose sono sbagliate e altre no. Se ti dicono continuativamente che camminare in un certo modo è sbagliato, anche se non hai alcuna malattia mentale, ti fissi che è cosi. Anche se l’uomo ha un certo spirito critico, è normale che gli venga da chiedersi: “Ma sono io che sono sbagliato o è la società che è sbagliata?”. Se la maggioranza attorno a te dice ripetutamente che ciò che tu fai è giusto o sbagliato, stranamente rischi di aderirci anche se con poca convinzione. Uno rischia di ritrovarsi a marciare con i nazisti, anche se ha famigliari ebrei. Io l’ho visto con gli hutu e i tutsi. Io mi ricordo la confusione di mio papà. Un uomo con dei principi sani, ma che a un certo momento aveva dei dubbi. Grazie a dio non ha mai ceduto. Anzi, l’hanno ammazzato proprio perché non ha ceduto. Non sono tante le persone come lui». **I vantaggi dei pod iGet Bar Plus per gli svapatori** I pod iGet Bar Plus offrono una serie di vantaggi per gli svapatori che cercano un’esperienza comoda e saporita. Con il loro design elegante e la varietà di aromi, questi pod assicurano una sessione di svapo soddisfacente. Sono facili da usare, portatili e offrono prestazioni costanti, il che li rende una scelta eccellente sia per i principianti che per gli svapatori esperti. Inoltre, i pod iGet Bar Plus sono progettati per un divertimento più duraturo, migliorando la tua esperienza di svapo senza la seccatura di dover ricaricare o configurazioni complicate. Per coloro che si trovano in Australia, la disponibilità di iget bar plus pods australia rende più facile che mai usufruire di questi vantaggi. **Breve descrizione:** Scopri la praticità e il sapore degli iGet Bar Plus Pods, perfetti per gli amanti dello svapo in Australia che cercano un’esperienza di svapo senza problemi.
Quanti anni aveva quando è stato ucciso?
«Mio padre è stato ucciso quando io avevo solo nove anni. Era un insegnante, era molto cattolico. Anch’io sono cattolico. Vado in chiesa, ma non sempre. Credo che esista un elemento superiore che mi può illuminare quando c’è tanto buio. Mio papà aveva studiato grazie ai missionari che gli avevano dato ospitalità. Raccontava che si faceva venti chilometri per andare a scuola e che in quarta elementare aveva avuto una malattia dei piedi che condizionava la sua deambulazione. I missionari gli diedero la possibilità di vivere da loro. In cambio, puliva la chiesa e aiutava nella missione. Papà era molto credente, tanto che ci obbligava ad andare a messa. Qualche volta ci interrogava su cosa avevano detto a messa per verificare se avevamo bigiato. A me piaceva tantissimo giocare a calcio e spesso la mia messa finiva davanti alla chiesa con un pallone e qualche amico. Se obiettavo sulla sua imposizione ad andare in chiesa, lui amava dire una frase: “Finché tu sarai sotto il mio tetto, tu andrai in chiesa perché l’ho promesso a Dio”. E quando lui non andava in chiesa, e ogni tanto non ci andava davvero, affermava che aveva già pregato e che sapeva pregare il suo Dio. Il suo Dio. Proprio così. Come se fosse un suo».
Cos’altro ricorda, di suo padre?
«A mio papà piaceva dibattere, ma non imponeva la sua versione. Ti chiedeva “Perché non credi in Dio?” e qualche volta ti faceva leggere la Bibbia per far sì che tu comprendessi o trovassi idee per argomentare. Quando la discussione finiva diceva: “Ora non credi in Dio perché non ne hai bisogno, ma quando io non ci sarò, e nemmeno la tua mamma, Lui ci sarà. Dio emerge quando hai bisogno. Non dimenticarti di chiamarlo”. Questo era il credo di mio papà, che poi ho ritrovato. Quando avevo bisogno, ho sentito quella voce che mio papà diceva che si fa sentire quando uno ha bisogno. Per lui la regola era: “Tu continua a fare quello che ti dico in quanto tuo papà perché l’ho promesso a Dio”. A giugno, ho scritto un lungo post su Facebook dedicato a mio padre».
Cos’ha scritto?
È molto lungo. Ma eccolo qui.
Il buio. Uno spazio senza luce. Gli uccelli non cantano più. I boschi sono in fiamme. L’uomo brucia la giungla per cacciare all’aperto il suo simile che si nasconde. Si sentono gli urli sulle colline. Qualcuno grida perché sta per morire, qualcuno altro giubila perché sta per ammazzare. Siamo in Burundi e il piccolo occhio mio non può non vedere. La ragione di un’intera nazione si è spenta all’improvviso e l’oscurità che si è formata e così accecante che ciò che si vede non si scorda mai. C’è troppo rumore, eppure tutto sembra chiaro per non perdere neanche un dettaglio. Povero padre mio! Io oggi, immerso in questa comunità che anch’essa sembra spegnersi lentamente, penso a lui. Penso al suo affanno in quel Burundi impazzito, sopraffatto dal tifo ignorante che non riusciva più a sentire nulla all’infuori dai slogan incendiari. In quel nostro piccolo villaggio, l’ignoranza regnava. Dei coetanei di mio padre, nemmeno uno su cento sapeva leggere e scrivere. Per dirla tutta, io a otto anni potevo trovare un lavoro e farmi pagare scrivendo o leggendo una lettera a qualcuno in quel luogo. Erano davvero pochi a sapere la magia del foglio che parla. Comunque questo non ci aveva impedito di vivere in armonia. I lavori erano suddivisi e piano piano anche l’analfabetismo stava scomparendo. Le scuole si moltiplicavano, i genitori cominciavano a crederci, i ragazzi non erano più tanto trattenuti nei campi e anche le ragazze erano ormai numerose nelle scuole. È vero che anche decine di anni prima della mia nascita in quel paese ci erano stati terribili massacri, ma noi altri vivevamo come se fossimo nati in un paradiso. Queste storie erano cose a cui si pensava solo se alla radio citavano parole ricorrenti come Sudan, Palestina, Israele, Arafat, Kuwait, … etc. Comunque restava una sorta di lessico che conoscevamo ma che non ci importava di nulla. La stessa cosa dicasi di parole come rifugiato, asilo, esiliato, sfollato. Poi venne quel maledetto 21 ottobre 1993. Il Presidente era stato ucciso e la corda che da anni ormai si era inconsciamente tesa all’inverosimile si spezzò. Dai massacri del 1972, come un veleno che si insinua lentamente nel tessuto sociale per poi distruggerne l’umanità, attraverso continue campagne di prediche di nemici invisibili e guerre inesistenti, due blocchi immobili si erano cristallizzati nella paura reciproca con una impressionante energia potenziale che non vedeva l’ora di scatenarsi. Fu un attimo passare dalla paura al machete. Qualche migliaio di persone furono falciate in una giornata sotto gli occhi di Dio. Donne e bambini, nonni e nonne, hutu e tutsi. Una schifezza disumana. Peccato che era solo l’inizio. Prima morirono i facilmente mirabili per tribù o orientamento politico. Poi arrivò il turno di quelli che, come mio padre, non si volevano arrendere alla potenza dell’oscurità che ormai regnava. Povero papà. Pregò per la non distruzione del centro di cura e supplicò perché non incendiassero le scuole. Me lo ricordo eccome! Una lotta tra un neurone attivo e milioni di coglioni pieni di odio e ignoranza capaci solo di distruggere e uccidere. Da una parte sembrava un gigante senza timore che cammina su una terra che si spezza di continuo, ma senza mai riuscire a inghiottirlo. Da un’altra parte, era tenero e pietoso. Sembrava essersi svestito del suo ruolo da genitore per essermi amico il più possibile in quelle giornate dove il bonus-papà poteva scadere in ogni momento. Questi erano momenti magici in cui il sentiero che porta alla fonte della saggezza si apriva per dirmi quello che conta davvero anche lontano dalla sua esistenza. Parole e fatti. Nascose Philippe e Marie Rose nel soffitto rischiando la pelle. Affrontò il calvario con Giuliette e Consolate offrendo tutto uno stock di birra ai criminali in cambio di qualche vita. In quell’incubo, quasi quasi, sembrava il gestore della logistica della macchina infernale che si era attivata. All’occhio ignaro, mio padre poteva anche sembrare un complice. La luce non si poteva subito accendere, ma qualche consiglio salvavita lo diede e salvò vite preziose. È una cosa che immensamente mi inorgoglisce, anche se tutto questo diede nascita all’odio che lo condannò poi alla morte. Così, la stella gigante in notte ancora più scura fu accoltellata e mandato dove riposano le anime buone. Anche se non hai Facebook, non riposarti troppo PAPÀ, perché anche qui, predicando invasioni e sostituzioni razziali inesistenti, l’oscurità si sta alzando nella paura e qualche santo forse ci servirà.
Dopo che ha lasciato il Burundi, dov’è andato?
«Sono andato in Kenya perché mi hanno negato il visto per venire direttamente in Italia e ringrazio il cielo. Altrimenti sarei finito qui e probabilmente non avrei studiato. Quando guardo i ragazzi che arrivano qui e che hanno quindici, sedici anni, mi dico: “Meno male che non sono arrivato a quell’età. È facile perdersi”. È vero che ci sono tantissime opportunità, ma proprio queste ti sviano. Uno pensa di potere fare il calciatore, l’attore o altro, ma, non essendo cresciuto qui, non si ha la minima idea di come molte persone che volevano diventare calciatori o attori non lo siano mai diventati. Un piccolo africano di quindici anni, pieno di una sana mania di onnipotenza adolescenziale, finisce a venticinque anni che non ha combinato nulla. Io, invece, sono arrivato a Nairobi, dove non avevo nulla. Vivevo in una baraccopoli. Frequentavo una scuola umile e l’unico elemento di riscatto era rappresentato dallo studiare per poi eventualmente conquistare il mondo con il cervello ed è stato bellissimo perché, tornando indietro, mi sono trovato in una guerra dove non c’erano alternative, se non studiare».
Sono ritornato a scuola e ho scoperto che ero anche capace. Ho fatto la scuola con voglia. Ho scoperto che ero capace di studiare e scoprire che hai la materia grigia nella teca cranica non è una cosa da poco. È la cosa più bella del mondo. Quando ho finito, sono arrivato in Italia, grazie a un’altra famiglia di Venegono Inferiore con cui avevo vissuto anche a Nairobi e che mi ha ospitato il primo anno. Così è incominciata la mia avventura. Ho fatto il test di ingresso a Medicina e sono entrato.
Perché Medicina?
«Perché, dentro di me sono ancora un soldato, mi piace difendere e salvare la vita degli altri. È la mia missione che continua. Nella fondazione dove lavoro, i miei pazienti quotidiani soffrono di demenza. Alzheimer, Parkinson, demenze da abuso… sono persone che vivono in un nucleo chiuso. Io do l’assistenza medica quotidianamente. Loro sono persone che soffrono tanto e che impegnano tantissimo le loro famiglie, distruggono le loro vite e di chi gli sta vicino. Emotivamente è molto coinvolgente anche per chi non li ha mai conosciuti. Riuscire ad avere l’opportunità di stargli accanto e garantire la tranquillità di queste persone che dovrebbero urlare dalla mattina fino alla sera, riuscire a regalare un po’ di serenità… per me è importante».
In Italia, come si è trovato?
L’Italia è una, ma penso che in realtà ci siano due Italie. C’è l’Italia dei buoni che valgono e quella dei cattivi che non valgono nulla. Nel senso, quando parliamo dell’Italia, c’è quella Italia conosciuta qui e quella conosciuta nel mondo. L’Italia ammirata nel mondo, per me, è l’Italia vera.
«Mi spiego meglio. Quando sei un bambino o un adulto e sei a Nairobi, o in Mali, se vedi una persona bianca tu dici Ciao. Non dici Bonjour o Hallo, anche se il francese è la lingua più parlata in Africa e l’inglese nel mondo. Dici Ciao, come se tutti i bianchi fossero italiani. Questa è l’Italia della chiesa cattolica che si trova in tutti gli angoli della terra ed è conosciuta come Paese dei benefattori. In quale Paese troverai un bambino che non ha mai giocato con giocattolo italiano? O ne troverai sicuramente uno che ti dirà che alla missione gli hanno dato un pallone. L’Italia, Roma. Sono luoghi delle persone buone. Se vai in Burundi e parli di un belga, forse uno si ricorda della colonizzazione. Quando parli di un italiano, più che altro si pensa a un prete e difficilmente a un colonizzatore».
E l’altra Italia?
«Purtroppo, quando sono arrivato qui, ho cominciato a conoscere un’altra Italia che non immaginavo. Il primo anno In Italia, ho vissuto con la mia famiglia italiana. Avevo le mie cugine e miei cugini, poi sono andato fuori e ho incontrato persone che mi hanno fatto sentire diverso, mi hanno fatto sentire che ero nero. La cosa che ci accomuna è che uno si rende che non è bianco non perché si guarda nello specchio, ma perché un’altra persona ti fa capire che sei diverso e forse di un colore non gradito. Non c’è nessuno che allo specchio si guardi il colore della pelle, ma guarda la ruga, l’occhiaia. Io non avevo mai avuto la curiosità sulla mia pelle. Scopri che qualcuno ti insegna che sei nero. Quando l’ho scoperto, un pochino ero triste, perché nello stesso momento avevo tanti amici che non volevo vedere bianchi. Tipo mia sorella Chiara non la voglio e non la posso vedere bianca. È semplicemente mia sorella. Queste persone vogliono che mi veda nero e non mi vogliono bene perché sono nero. Poi in fondo lo sai che non tutti i bianchi sono così. Intanto comunque dentro di te devi cominciare a capire chi ti vede in un modo e chi in un altro. Incomincia una guerra dentro di sé che non si sa mai come risolvere. Ignoro tutti? Tengo i pochi che ho e non coltivo più nessuna nuova amicizia? Diventa difficile interagire con le persone perché è come se si abbracciasse qualcuno con uno scudo. Ti abbraccio, sì, ma voglio sempre capire come tu mi abbracci. Se mi abbracci bene, tolgo lo scudo. Se mi abbracci male, lo scudo resta. Ma anch’io devo capire che l’altra persona sente lo scudo».
In quali occasioni non ha indossato questo scudo?
«Quando ho scoperto la scienza, l’università, gli amici, gente che mi ha voluto bene. Dire che va tutto male non è vero, la parte buona del Paese mi ha aiutato tantissimo, dall’amico che mi ha passato gli appunti, a chi mi ha incoraggiato quando sono stato bocciato, a chi mi è venuto a trovare quando non mi vedeva un giorno e chiedeva: “Poly, dove sei finito?”. Non mi sono mai sentito da solo ed è una cosa bellissima».
In Italia non tutto va male. In Italia ci sono tantissimi ragazzi fantastici. All’università c’era un team del quarto anno che mi aveva adottato. Uscivo dall’aula e mi chiedevano se avevo bisogno degli appunti, perché sapevano che con il mio italiano era difficile per me prenderli. Quando andavo all’esame, il professore si ritrovava l’aula piena perché entrava un sacco di amici che venivano sostenermi. Non me lo dimenticherò mai. Sentirti appoggiato e supportato ti dà la carica anche quando non sta andando bene.
«Mi ricordo il prof di Ortopedia quando mi sono impappinato all’esame. mi disse “Vai a sederti, tranquillizzati, lo so che sei capace”. Ero già stato in sala operatoria insieme a quel professore. Mi conosceva e conosceva la mia preparazione. Per questo aveva capito che era un attacco di panico all’esame».
Cos’altro ricorda, di quegli anni?
«Ci sono professori che mi hanno guardato negli occhi e hanno visto un ragazzo che voleva diventare un medico e lo hanno aiutato. Per questo, dico che l’Italia non è un Paese razzista. I razzisti purtroppo parlano troppo e spesso trovano tanto spazio. Loro sono pochi ma sembrano tanti, mentre quegli italiani che in questo momento appaiono in minoranza sono tantissimi. Parlo dei miei professori, delle mie famiglie italiane, ma anche di chi ha costruito questo sistema democratico. L’Italia non è diventata grande per ciò che sta succedendo oggi, ma per ciò che è stato fatto. È uno dei sette Paesi più grandi del mondo. Non può dimenticare tutto e perdere tutto».
Quali sono oggi, le sue speranze?
«Vorrei che sapessero che la strada giusta non è quella dritta e senza insidie. Sono arrivati in un Paese in cui si può studiare e crescere, certo ci vuole costanza, impegno e fatica, ma ci si riesce».