Per questa pausa estiva, abbiamo selezionato le storie più belle dall’archivio di NuoveRadici, che ripubblicheremo nelle prossime settimane. La storia del primario Bertrand Tchana è stata pubblicata nell’agosto 2018.
Ruota intorno a un complicato intreccio familiare, la storia professionale del professore Bertrand Tchana. Diventato il primo primario africano della cardiologia pediatrica dell’azienda ospedaliera e universitaria di Parma un anno fa. Nato in Francia cinquant’anni fa, suo padre che sognava di diventare medico ha preso invece due lauree in ingegneria e ha fatto pressione sul primogenito Bertrand affinché fosse lui a fare il medico, anche se il figlio aveva la vocazione opposta e desiderava fare l’ingegnere. E a complicare ancora di più la sequela di vocazioni mancate, c’è stato pure il fratello minore di Bertrand che voleva fare il medico come il padre e si è trovato ingegnere in Canada. E così, da tutte queste scelte incrociate che nessuno voleva fare, è venuto fuori lui, quello che i suoi piccoli pazienti chiamano il dottore di cioccolato. Ossia l’unico primario afroitaliano di una specialità delicata come è quella della cardiologia infantile.
E racconta volentieri la sua storia, mentre osserva: «L’Italia è un Paese di emigrazioni, ma paradossalmente è anche il Paese che capisce meno l’immigrazione né ha ancora fatto i conti con il multiculturalismo che sta emergendo». Ed è proprio così perché ancora una volta, davanti a un’eccellenza medica, non abbiamo trovato la fila ad intervistarlo. E ancora una volta ci siamo arrivati per caso perché lo conoscono solo gli addetti ai lavori e la sua carriera è restata sotto traccia, quasi invisibile, come un geroglifico da decriptare.
Originario del Camerun, appartiene a quella che lui stesso definisce “una forza silenziosa” che tiene in piedi l’Italia. E non si riferisce agli immigrati diventati italiani che fanno lavori qualificati, ma a tutte le nostre eccellenze, sconosciute o ignorate sia all’estero sia in Italia.
Seduto nel suo studio all’interno dell’Ospedale dei bambini Pietro Barilla – una struttura imponente fatta di lastre di specchi e costruita con il contributo della Barilla –, sorride. Anche se si percepisce un velo di amarezza fra le sue parole. Forse perché gli piacerebbe poter essere utile al suo Paese di origine, dove suo padre è tornato dalla Francia per contribuire alla modernizzazione: il Camerun, l’unico paese stabile del Centro Africa dopo la sanguinosa guerra per l’indipendenza.
Alle pareti ha appeso un poster che gli hanno regalato i suoi colleghi su cui c’è scritto “Keep calm Bertand” e ci mostra un disegno fatto da un suo piccolo paziente che lo ha ritratto su un foglio bianco in cui ha scritto: “Lo zio Bertrand è il medico più bravo del mondo”. Sorride anche quando ricorda quel bambino che, vedendolo, si è messo a piangere e la mamma gli ha spiegato un po’ mortificata: «Mi scusi dottore, ma quando mio figlio non dormiva io gli dicevo: guarda che arriva l’uomo nero».
Il primario Bertrand Tchana ha uno spiccato accento parmigiano (erre moscia compresa). E ci racconta: «Dovendo fare il medico, ho scelto la pediatria perché mi piacciono i bambini. Da studente ho fatto però molti tirocini prima di decidermi, prima di incontrare uno dei miei maestri, il professor Olivetti, che mi chiese cosa volessi fare da grande. E fu così che decisi di fare cardiologia pediatrica dove incontrai un altro grande maestro: Umberto Squarcia» (che ha guidato prima di lui il reparto di Cardiologia pediatrica dell’Ospedale Maggiore di Parma). Adesso anche lui ha degli allievi tirocinanti nell’azienda ospedaliera universitaria dove si è formato, ed è riuscito a creare una collaborazione tra la sua università e una del Camerun. «Ci vorrebbe un flusso bidirezionale che permettesse all’Africa di svilupparsi e invertire le migrazioni che non vadano più solo da Sud verso Nord, ma anche al contrario» ci spiega.
In Italia dal ’94, cittadino italiano da dieci anni, dice che ci sono diversi medici africani, quasi tutti del Camerun, che si laureano nella facoltà di Parma anche se in ospedale ne entrano pochi: la maggior parte va a lavorare nelle case di cura o a fare la guardia medica.
Il primario Bertrand Tchana non ha avuto problemi di integrazione e impedimenti nella sua ascesa professionale per due motivi: la cardiologia pediatrica è un settore clinico di nicchia che prevede un percorso impegnativo e lui ha avuto dei mentori che lo hanno incoraggiato a tracciare la linea del suo destino professionale.
Ha visitato molti altri istituti di eccellenza, in giro per i globo, fra cui Boston, ma è sempre tornato indietro a Parma perché è qui che i suoi maestri gli hanno trasmesso l’essenza del rapporto empatico fra medico e paziente. «Al Boston Children’s Hospital dove sono stato per tre mesi nel 2014 come visiting fellow per partecipare all’esecuzione e diagnosi di oltre duecento risonanze magnetiche cardiache a bambini ed adulti con cardiopatie congenite, ogni tanto vedevo qualche nome scomparire dal monitor perché non avevano l’assicurazione sanitaria. E per me tutta l’eccellenza medica e tecnologica del mondo perde valore se la prima domanda che ti fai è se la famiglia può pagare e non quale sia la patologia da curare».
E infatti poi ci ha detto una frase che colpisce o che non ti aspetteresti da un medico che di solito tende a tenere le distanze da chi cura per non lasciarsi coinvolgere: «Io mi porto a casa tutte le storie dei bambini che seguo. Non voglio dimenticarle, semmai le sublimo. E poi quando se ne vanno, resta sempre una ferita profonda». Perché un conto è riparare le funzioni cardiologiche degli adulti e un altro tenere in vita bambini con una malformazione cardiologica o dei linfomi. Il loro destino è quasi sempre segnato e sono i primi a saperlo. «I bambini sono pazienti seri. Non puoi contargliela su perché sanno cosa li aspetta», ci ha raccontato, «altrimenti perdi la loro fiducia». Il dottor Tchana ricorda ancora quel bimbo affetto da Hiv che era resistente alle terapie. Ha provato a trasmettergli speranza, a dirgli che sarebbe tornato a casa, ma il piccolo paziente lo ha guardato negli occhi e gli ha detto: «Tanto io fra poco sarò ancora qui».
Bertrand Tchana ci racconta anche come è arrivato ad essere primario della cardiologia infantile nell’azienda ospedaliera e universitaria di Parma, che è considerata un’eccellenza della diagnostica. Sono stati determinanti i suoi maestri, certo, ma anche la sua propensione al sacrificio ereditata dal padre che lo ha portato a fare ventuno esami in un anno. Lavoro sacrifico e passione, passione sacrificio e lavoro.
Ed è significativa la sua percezione degli studenti italiani. «Molti giovani italiani cercano la scorciatoia, il posto fisso che produce rendita e pensano che sia facile arrivare al traguardo, mentre gli stranieri o gli immigrati di seconda generazione si impegnano per andare veloce. Io cerco di fare capire che non ho studiato tanto perché sono somaro, ma perché la cardiologia è un percorso lungo e impegnativo», ironizza.
Messaggio sotteso: sono gli stranieri e figli immigrati che vanno più veloci, spinti dalla molla del riscatto sociale. Perché lui, che ha vissuto sotto traccia, lo ripete più volte, prima di congedarci: l’America è in Italia. L’Italia ha creato uno standard di qualità oltre il quale non si scende. E ad ascoltarlo mentre elogia il Paese in cui vive e cura i bambini viene in mente la canzone di Francesco De Gregori: L’Italia che lavora e l’Italia che resiste.