È ambientato a Scarborough nella periferia di Toronto in Canada, ma potrebbe essere ovunque lo scenario di Brother, pubblicato da Chiarelettere, il romanzo di David Chariandy, scrittore cinquantenne canadese originario di Trinidad che sta mietendo premi in mezzo mondo. Dal Toronto Book Award fino all’assai prestigioso Windham-Campbell Prize. Caraibico David Chariandy, caraibici i protagonisti del suo libro, i fratelli Michael e Francis, Brother appunto, che si muovono in questo sobborgo dove la violenza anche della polizia e i pregiudizi di tanti fanno da sfondo.

Siamo agli inizi degli anni Novanta ma non è che oggi sia poi cambiato molto. Se nasci nei ghetti, nei ghetti è fin troppo facile rimanerci anche se alla fine hai il passaporto canadese.

«Nostra madre era originaria di Trinidad, l’area geografica che i genitori della sua generazione chiamavano le Indie Occidentali. Era un posto dove io e Francis, nati e cresciuti qui in Canada, eravamo stati solo una volta, e che riconoscevamo vagamente in certe parole, in certi suoni e sapori. Era il posto che spiegava la presenza in casa nostra di bevande come il mauby e il sorrel, nonché il Peardrax, un nome così improbabile che Francis mi aveva fatto credere fosse una marca di detersivo per il bagno. (…) Le Indie Occidentali erano un posto abitato da gente che avevamo conosciuto pochissimo, e che ormai esisteva solo in vecchie foto in bianco e nero, immagini spettrali che spiegavano da dove venivano i nostri occhi, il nostro sorriso, i nostri capelli e la nostra ossatura».

Se le radici dei “brothers” sono nel dna, a far da collante alla famiglia c’è la madre. Nel romanzo non ha un nome, ma la sua figura è centrale. È il fulcro attorno a cui tutto ruota. Una madre presente anche se esce di casa all’alba a spaccarsi la schiena a pulire uffici, negozi ed ospedali, per garantire la sussistenza ai figli. Una madre che dorme vestita per risparmiare due minuti per stare di più con i fratelli. Una madre castigo di Dio che promette sfracelli a quei figli che ama troppo.

Ma alla fine non servirà a niente di fronte alla tragedia che incombe su Francis. Il figlio maggiore che lascia la scuola e poi la casa per la strada, tra piccole illegalità con sottofondo l’hip hop, colonna sonora dei ghetti da una vita. Il destino comune di tanti, dipinti senza quasi possibilità di riscatto come “teppistelli”, “criminali”, “teppaglia”.

Un destino a cui è scampato solo per un miracolo lo stesso David Chariandy, oggi scrittore di successo e docente universitario alla Simon Fraser University, come racconta lui stesso a La Lettura del Corriere della Sera: «Spesso ho provato la sensazione di non avere possibilità, ho sentito addosso quello sguardo privo di fiducia, sempre così palpabile, riservato a un figlio di genitori dalla pelle scura».

Non è solo un problema di sensibilità dello scrittore. Raccontare quello che si è visto, o meglio ancora vissuto nell’adolescenza, dove basta un niente per spostare il piatto della bilancia dove si misurano gli equilibri della vita, è un qualcosa di impareggiabile.

Il romanzo, anche con i suoi aspetti dolorosi, non chiude le porte alla speranza. Verrebbe quasi da dire alla redenzione, come se la salvezza dal ghetto fosse un atto trascendentale in cui non conta solo la propria forza d’animo o quella del carattere. Ma pure una serie di elementi esterni quasi mai controllabili. Anche il grilletto facile di un poliziotto troppo nervoso e va da sé prevenuto e razzista di fronte a quel ragazzo caraibico “troppo nero”.

Con un salto temporale di dieci anni il romanzo racconta la vita di questa famiglia, con la madre devastata dalla fatica e dagli avvenimenti, in cui si inserisce Aisha, l’altra figura femminile che quasi si completa con il ruolo della oramai anziana genitrice. A indicarci che la salvezza passa dalla donna? Può essere. Ma di sicuro da lei arriva l’invito a non incupirsi oltre in questi tempi già cupi. Anche se pure nel sobborgo ghetto dipinto mirabilmente con pochi tratti da David Chariandy, capita che nel dolore e nella fatica non ci sia alcuna condivisione possibile.

Una cosa che lo scrittore caraibico canadese conosce fin troppo bene per averla vissuta, prima che raccontata. «Non biasimo i vicini che hanno deciso di evitarci. Portano già il peso delle loro storie, della loro speranza di farcela davvero. Sono marchiati dalla lingua che parlano, dalla religione che professano e dal colore della loro pelle, spesso hanno lavori temporanei e precari. E se, per queste ragioni, capita che riservino a mamma atti di quotidiana generosità e gentilezza che nascono da un profondo senso di vulnerabilità, comprendono anche il pezzo dello stigma, e quanto certe storie ti rimangano appiccicate addosso, come un cattivo odore che non va via più. Ho sentito dire che alcuni abitanti del Park scrivono un indirizzo falso sulle domande di lavoro, per paura che qualunque legame con questa zona possa compromettere ancora di più le loro esistenze già complicate».