Le mani in pasta gliele fece mettere la sua seconda mamma. Da allora Idrissa Kaborè, 41 anni, nato in Burkina Faso, cresciuto a Genova, non si è più fermato. Dopo aver lavorato in importanti ristoranti italiani, a Saint Tropez e a Montecarlo, ha aperto un suo locale con una cucina italiana con forti influenze genovesi e napoletane come la moglie. Il ristorante Le Goût si trova a Bergamo, una terra in apparenza non facile per gli stranieri: «I bergamaschi sono diffidenti. Hanno bisogno che qualcuno che abbia già provato li rassicuri, prima di venire nel mio ristorante. Ma se vedono che lavori bene e ti impegni come ho sempre fatto io, poi diventano clienti fedeli. Certo qualcuno continua a darmi del “tu”, forse un riflesso condizionato per sminuire lo straniero. Ma io non mi preoccupo. Così va il mondo».
Idrissa Kadorè, come c’è finito a Genova dal Burkina Faso?
«Sono arrivato in Italia nel ’91, avevo 12 anni. Mio padre lavorava in un villaggio turistico. Dopo che si è separato dalla mia mamma africana si è messo con una donna genovese che poi ha sposato. E lei ha adottato sia me che mio fratello e mia sorella».
Com’era vivere a Genova?
All’inizio è stato difficile. Faceva molto freddo. Se avessi potuto sarei tornato indietro subito. Mi mancava la mia terra rossa. A casa in Africa avevo una gallina che mi aveva regalato mia nonna e che tutti i giorni mi dava un uovo fresco. Avevo un piccolo pezzo di terra dove coltivavo arachidi che vendevo al mercato. E avevo tanti amici con cui giocare. Sono nato in quello che tutti chiamano Terzo Mondo ma per me era il Mondo Migliore.
«In Africa la mia casa era senza porte, né finestre. A Genova dividevo una stanza con mio fratello, l’appartamento era in condominio con tante porte e finestre. Mi sentivo come in gabbia, c’è voluto un po’ di tempo per abituarmi. La mia mamma italiana in questo è stata molto brava».
Cosa faceva?
«Per farci stare tranquilli ci faceva mettere le mani in pasta. Ci coinvolgeva tra i fornelli. C’era chi lavorava col mortaio per preparare il pesto alla genovese, chi impastava la pasta fresca, chi tirava la sfoglia per fare i ravioli e tutti insieme facevamo la torta di mele».
E a scuola?
«Ho iniziato dalla terza elementare. Non sapevo una parola di italiano. Andrea il mio compagno di banco mi aiutava con l’italiano e a fare i compiti. Non ho mai perso un anno. All’inizio a me e ai miei fratelli ci guardavano tutti. I bambini sono molto curiosi. Volevano sapere che giochi facessi. Io raccontavo della caccia con la fionda e delle corse tra gli alberi».
Quando è nata l’idea di diventare cuoco?
All’inizio volevo fare il medico. Ma avrei dovuto dipendere economicamente troppo dalla mia famiglia. Sono molto orgoglioso, non avrei mai potuto. È stato mio zio a dirmi che avrei dovuto diventare cuoco: «L’essere umano non cesserà mai di mangiare. Questo è un mestiere d’oro». Così mi sono iscritto alla scuola alberghiera Marco Polo di Genova e d’estate facevo gli stage nei ristoranti dove ho imparato la cucina italiana. Ho fatto la gavetta dura, giornate infinite tra pentole e fornelli. Dopo c’era da pulire la cucina. Quando andavo a letto ero distrutto ma felice.
«Il primo contratto l’ho avuto con un ristorante di Saint Tropez, poi non mi sono più fermato. All’inizio pensavo che sarei stato solo tutta la vita. I cuochi lavorano quando gli altri si riposano. Non ci sono sere libere né week end. Poi vent’anni dopo il mio arrivo in Italia ho incontrato Brunella, la figlia della cugina della mia mamma italiana. È stato subito vero amore. Ma io stavo a Genova e lei a Napoli. Così mi sono trasferito e ho trovato lavoro in un ristorante napoletano. I ragazzi della brigata di cucina mi hanno accolto con il calore che mi ricordava l’accoglienza dei miei amici africani. Lì ho imparato i piatti della tradizione napoletana, a partire dalla “genovese” che non c’entra nulla con Genova. Dopo un po’ ci siamo sposati ed è nato Pasquale, che ha il nome di mio suocero scomparso purtroppo troppo presto. Dopo aver lavorato per anni in modo sodo mi sono accorto che stavano mancandomi gli stimoli. Così ho deciso con grandi sacrifici di aprire un ristorante tutto mio».
Un bambino italiano figlio di una coppia mista…
«Quando si sente che lo chiamano Pasquale Kaborè si girano tutti. Ma io gli ho sempre detto che se lavori e sei una brava persona nessuno ti può dire niente».
È più tornato in Burkina Faso?
«Sono 18 anni che non ci vado. Vorrei che la mia mamma africana con cui ci sentiamo al telefono potesse conoscere suo nipote e vedesse cosa è riuscito a realizzare nella vita suo figlio.
Lei è andato anche in televisione, a La prova del cuoco alla Rai e a Cuochi d’Italia con Alessandro Borghese. La vita è più facile così?
Per strada ogni tanto mi riconoscono, ma certi stereotipi contro gli stranieri sono duri a morire. Ci sono quelli che mi danno del “tu” anche se non mi conoscono. Quelli che dicono che parlo bene italiano come se fossi arrivato ieri. È un problema di ignoranza non ci si può fare niente. Quindici anni fa volevo iscrivermi all’Associazione Cuochi Italiani ma all’inizio non volevano, perchè dicevano che non accettavano stranieri.
«Io in cucina ho sempre lavorato sodo. Affermo la mia dignità col lavoro. Per aprire il ristorante nel settembre di tre anni fa ho fatto tanti sacrifici. Se sei bravo e hai disponibilitá va tutto bene, se hai delle difficoltà guardano il colore della pelle e si girano dall’altra parte. L’italiano è mediamente un popolo buono ma ovviamente non si può piacere a tutti. Così va il mondo».
Il futuro?
«Vorrei aprire un ristorante a Genova. Sono un cittadino del mondo ma il mio cuore è lì. Ma ho pure il progetto di tornare in Burkina Faso. Nel mio ristorante vengono a fare stage allievi di una scuola alberghiera di Nembro. Mi piacerebbe insegnare in Africa come si cucina e magari aprire un altro ristorante in Burkina Faso. Alla fine le mie radici sono ancora lì».
Questa intervista è stata realizzata in collaborazione con l’associazione Nuovi Profili con cui NuoveRadici.World ha una partnership.