Klevisa Ruçi, 26 anni, albanese, in Italia dal 2011, laureata in Scienze Internazionali per lo Sviluppo e la Cooperazione sta completando gli studi per ottenere una laurea magistrale in Comunicazione Pubblica e Politica all’Università di Torino, fa parte del direttivo di NILI, il Network Italiano dei Leader per l’Inclusione, guarda all’Europa e al mondo: «Mi spaventa come l’Europa si sta rapportando agli stranieri. Ma io guardo oltre. Mi piacerebbe poter lavorare in quelle aree dove anche con la pace rimangono traumi profondi. Penso ai Paesi Balcanici ai quali sono molto legata. O al Medio Oriente». 

Perché proprio l’Italia?

«Ho iniziato a studiare l’italiano che avevo 9 o 10 anni. I miei genitori, sono medici, spronavano me e i miei fratelli a trovare una nostra strada e nuove opportunità. La televisione italiana è stata fondamentale per me fin da bambina. Tutto quello che vedevo era molto bello. In Italia avevo parenti, avevo i  miei nonni che spingevano perché lasciassi l’Albania. Così sono partita con un visto per motivi di studio. E adesso sono qui con un solo obiettivo: farcela».

Determinata…

«Si fanno tanti sacrifici. Adesso lavoro in un campus estivo con una sessantina di ragazzini. Sono la loro referente di inglese ma ovviamente mi occupo anche di tutto il resto».

È dura finire di lavorare, magari tardi la sera, per poi andare a lezione il giorno dopo. Ma non potrei mai studiare e basta come fanno tanti ragazzi italiani che devono pensare solo all’Università. Alla fine questo per me è stato anche un elemento di crescita. Faticoso ma ne vale la pena. Rifarei tutto.

«Sono 8 anni che vivo da sola. Certo capita che mi dica: “Basta, non ce la faccio più, torno a casa”. Ma poi uno deve fare i conti con se stesso. Stando qua ho imparato ad avere una mentalità molto aperta e sono diventata molto indipendente».

Di qua dell’Adriatico, in Europa, la situazione per gli stranieri non è facile…

«È una cosa che spaventa. Ci sono tre livelli di esseri umani: l’italiano o l’europeo in generale, lo straniero integrato e quello che scende dai barconi. Io mi sento fortunata, una straniera di alto livello. Ho studiato, ho una laurea, vivo in Italia, non sono arrivata con un gommone. Penso che per molti conti più lo status sociale che il colore della pelle. È il livello di studio che fa la differenza».

Lei fa parte del direttivo del NILI, il network che vuole promuovere la leadership straniera. Alla fine cosa conta di più? La rete di protezione che nasce dalle relazioni tra voi o il cambiamento che volete operare nella società?

Siamo cittadini del mondo. È vero che è una rete di appoggio. Ma noi ci sentiamo di avere una grande responsabilità. Quella di guidare il cambiamento. Il NILI è un centro di educazione, di formazione, siamo un network. L’Italia magari non è ancora pronta al cambiamento. C’è una certa Italia che ha bisogno ancora di un nemico. Prima c’erano i meridionali, poi gli albanesi, adesso chi arriva dall’Africa. Ma è solo una questione di tempo.  

Straniera, albanese, donna. È stato difficile?

«L’anno scorso una mia amica ha lasciato una casa in affitto dicendo al padrone di casa che sarei subentrata io insieme a mio fratello che sta studiando Ingegneria Elettronica al Politecnico di Torino. Alla mia amica non era venuto in mente di dire che ero albanese. Aveva solo spiegato che ero una studentessa universitaria. Al telefono il padrone di casa mi ha detto: “Andava preso in considerazione che non sei italiana”. Non ha detto apertamente che non voleva darmi la casa perché sono albanese ma il senso era quello. La cosa che mi ha colpito di più è che era arrivato tanti anni fa dal Sud. Aveva vissuto lui stesso sulla sua pelle quello che mi stava facendo provare. Per qualche mese sono stata ospite di amici ma poi la situazione si è risolta e ho trovato casa».

In Università, in un ambiente culturale elevato, ci sono questi problemi?

«Solo una volta è capitato che alcuni studenti mi apostrofassero dicendo: “Non fare l’albanese che ruba!”. Ma erano studenti politicizzati e di destra. Di sicuro ai miei parenti sono capitate situazioni peggiori. Sono situazioni molto forti quando si subiscono. Non importa quanto parli bene l’italiano, quanto studi, lavori, paghi l’affitto e non rubi. Ci sono persone che hanno un’idea distorta dell’Albania. Anche se l’Italia è altro e quelli così sono pochi, però urlano tanto».

Non ha ancora i requisiti per essere cittadina italiana…

«Purtroppo no. Ci sono tantissimi problemi burocratici per diventarlo. Complicati dal nuovo decreto sicurezza. Intanto bisogna avere 10 anni di residenza continua. Poi un contratto a tempo indeterminato per almeno 3 anni. Cosa non facile per un italiano figuriamoci per uno straniero. Poi bisogna aspettare altri 4 anni. Quando finisco l’Università ho un anno di tempo per trovare un lavoro. Altrimenti “torno a casa mia”, come dicono loro».

L’idea di andare in un altro Paese europeo non le è venuta?

«Alla fine c’è sempre lo stesso problema di essere cittadini europei. L’esperienza acquisita, gli studi fatti, la laurea, non contano niente. Mi piacerebbe continuare a lavorare nell’associazionismo. Ho lavorato molto nel campo dell’educazione. Le nuove generazioni sono quelle che contano di più. Sono quelle che cambieranno l’Italia». 

E tornare in Albania, una volta completati gli studi?

Per il momento non ci penso. Torino è casa mia. Non la cambierei per niente al mondo. Mio padre mi ha sempre spinto a venire in Italia: “Dovete farcela, dovete meritare il rispetto degli altri”. Questo diceva a me e a mio fratello.

A Torino frequenta la comunità albanese?

«Ho amici di tutto il mondo. Non voglio stare solo con gli albanesi a parlare la nostra lingua. Mi ha arricchito molto avere amici di tante nazionalità. Non credo di avere radici in una sola nazione. Mi sento italiana, albanese, africana, mediorientale. Mi sento di far parte dell’umanità».