Follow the money: una persona su 9 sulla Terra vive con i soldi che ogni mese gli manda un parente che lavora in un altro Paese, in genere occidentale o asiatico “ricco”.

Detto altrimenti: 800 milioni di umani vivono oggi grazie alle rimesse dall’estero trasmesse via Money Transfer da circa 200 milioni di lavoratori migranti. E oltre a viverci pare riescano a risparmiare e a investire almeno un quarto del denaro ricevuto.

A snocciolare queste cifre, con buona pace di chi si immagina che “aiutiamoli a casa loro” sia il nuovo moltiplicatore keynesiano, è stato qualche settimana fa Gilbert F. Houngbo, presidente del Fund for Agricultural Development (IFAD) in occasione della tradizionale International Day of Family Remittances (IDFR), la giornata mondiale delle rimesse delle Nazioni Unite.

Le rimesse infatti hanno raggiunto quest’anno la bella somma di 550 miliardi di dollari, venti in più dello scorso anno. Meno di un decimo del patrimonio gestito dalla Black Rock ma più di tutti gli investimenti esteri diretti nei Paesi poveri e il triplo degli aiuti ufficiali messi assieme. Una cifra, va detto, racimolata con soltanto il 15% del reddito dei migranti, perché il restante 85% rimane tra affitto e consumi nei Paesi che li ospitano.

Le agenzie dell’Onu sperano ovviamente che questi dati si consolidino nel prossimo futuro: Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile ha scommesso che per allora le famiglie nei Paesi poveri avranno ricevuto circa 8500 miliardi di dollari, mettendone da parte o investendone oltre 2000, con un effetto moltiplicatore senza precedenti per le economie locali.

I migranti presenti in Europa concorrono ogni anno con circa 109 miliardi di dollari, pari a un quinto delle rimesse mondiali; stando ai dati di qualche anno fa (2014), guidano la classifica (nell’ordine) Federazione russa, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Spagna.

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In Italia, stando all’ultimo report di Bankitalia che aggrega ogni trimestre i flussi dei Money Transfer, lo scorso anno le commesse verso l’estero sono tornate a correre per la prima volta dopo il tracollo del 2011.

Nel 2018 hanno raggiunto i  6,2 miliardi con un balzo di oltre il 20% rispetto all’anno precedente: un dato che dovrebbe riflettere anche meglio la realtà, dopo che nuove disposizioni hanno esteso ad alcune categorie di intermediari l’adesione obbligatoria e non più volontaria alla rilevazione.

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Come mostra l’infografica sopra, dal 2005 è cambiata anche la composizione della “torta”, in seguito  alle ondate migratorie e all’andamento delle economie: se 15 anni fa i lavoratori cinese e rumeni valevano da soli oltre il 50% delle rimesse, oggi almeno 8 comunità, comprese India, Pakistan e Senegal, inviano a casa almeno 300 milioni all’anno. E in testa alla classifica le rimesse verso il Bangladesh hanno superano, anche se di poco, quelle che dei rumeni. Soprattutto, con la crescita e la nuova affluenza del Dragone sono scomparse del tutto le rimesse dei cinesi verso la madrepatria, un tempo le più consistenti. 

Se le rimesse sono il nuovo petrolio dei Paesi in via di sviluppo, che per molti anni ancora dipenderanno dall’immigrazione e dalla mobilità lavorativa per una parte delle risorse, non stupisce che la comunità internazionale si sia impegnata a ridurre i costi di trasferimento del denaro: un obiettivo che Agenda 2030 fissa al 3%. Obiettivo ambizioso considerando che dalle nostre parti il costo di una transazione supera spesso il 5-6%.

Non bastasse, il governo giallo-verde l’autunno scorso ha provato a introdurre una mini-tassa dell’1,5% sui trasferimenti dei Money Transfer verso Paesi non comunitari.

E meno male che l’Antitrust ci ha messo una pezza, bloccando un provvedimento (targato Lega) che avrebbe discriminato chi essendo privo di un conto corrente non può ricorrere ai tradizionali canali interbancari.

(Foto Alistair Macrobert via unsplash)