Maurizio Ambrosini, Paolo Naso, Claudio Paravati (a cura di)
Il Dio dei migranti. Pluralismo, conflitto, integrazione (Il Mulino, 2019)

Se ne sa davvero poco, a parte qualche considerazione stereotipata, del rapporto tra migranti e religione. Tre studiosi di levatura come il sociologo Maurizio Ambrosini docente a Milano, Paolo Naso che ha la cattedra di Scienza Politica alla Sapienza di Roma e Claudio Paravati che dirige il centro studi Confronti, provano a riempire questa lacuna. Oltre all’analisi sulla comunità musulmana in Italia, due studi indagano gli ortodossi rumeni che sono oltre un milione nel nostro Paese e i diversi volti del cristianesimo tra gli immigrati milanesi. Fabio Poletti

A Trento, a metà novembre 2016 si teneva l’incontro dei delegati all’ecumenismo della chiesa cattolica italiana. Imminenza del quinto centenario della Riforma: e dunque immancabile tavola rotonda su Lutero. Evento lodevolmente attento al galateo ecumenico e onesti tentativi di misurarsi con un uomo dalla insopportabile verve polemica, dotato della più fascinosa spocchia professorale: ma che quando apriva il vangelo lo faceva sentire come tale e per questo capace di accendere – dal suo tempo fino al XXI secolo – il fuoco delle domande ineludibili, l’urgenza di un rinnovamento cristiano nella fede che cinquecento anni fa, alla fine costrinse persino il papato a riformarsi. Il programma di quel convegno però includeva anche questioni più generali: diversità, pluralismo, migrazioni, rifugiati. Molti discorsi, con molto multi- e molto inter-. Il tutto davanti a una platea che il gergo gazzettistico che non teme la banalità avrebbe definito aperta: capace dunque di ricevere e trasmettere sentimenti buoni e buone pratiche, casi e soluzioni edificanti.

A essa uno dei relatori – Paolo Naso – fece una domanda maliziosa: «Qual è la quota di musulmani fra gli immigrati?». Per aiutarli, come nei peggiori quiz televisivi, offre ai dubitabondi delegati tre percentuali: una vera, due false. Il grosso di quella platea scelse la riposta sbagliata: musulmano il 90% degli immigrati… Forse, se ci avessero riflettuto un po’ di più, avrebbero realizzato che la somma di badanti ortodosse, philippinos all’opera come dog sitter cattolici, bovari sikh e schiavi del San Marzano non può stare tutta pigiata dentro un magro decimo del totale. Ma quel lapsus istintivo è un sintomo evidente di come la discrasia fra percezione e realtà che i sociologi si entusiasmano a raccontare non sia un problema collegato a bassi standard etici (quei delegati erano tutte persone generose e di qualità), bensì a un deficit insieme culturale e spirituale profondo. E quando un deficit culturale e spirituale si accumula nel tempo e sedimenta per decenni, alla fine inquina tutto, contagia tutti, acceca tutti. Anche i migliori, che davanti alla nostra dose di migrazioni in entrata e in uscita (perché migrazioni ci sono sempre state e ogni generazione ne ha solo una dose) si muovono a tentoni: trovandosi abbracciati ora a un attivismo improduttivo, ora a precarie terze vie, ora alla destra sovranista e populista. Militanti egualmente incolpevoli del pelagianesimo, dell’istinto a strusciarsi su qualunque potere purché odori di potere, di un neofascismo cristiano che sembrava impossibile. Sicché, come si vedeva quel pomeriggio a Trento, persone di buona cultura biblica non riescono a rileggere la torre di Babele come il dono della diversità che impedisce il folle progetto di scalare il cielo e consegna quello di viverla come esseri umani; e persone di sicura devozione dimenticano che il messia – «dall’Egitto ho chiamato mio figlio» – è profetizzato come colui che fugge per tornare.

Non è certo questo apologo trentino che mi sono impudicamente permesso di ricordare che può bastare per provare che quel deficit culturale e spirituale ha avuto un grande ruolo nel leggere la componente religiosa, così rilevante del fatto e della propaganda migratoria: ma sarebbe sbagliato sottovalutare il fatto che la superficialità e la negligenza con cui è stata letta la complicatio del paesaggio religioso discende da un deficit datato e lo farà pesare per molto tempo. D’altronde quando, sul finire del secolo XX, il cardinale Biffi enunciò l’idea di mettere un filtro religioso sui migranti – quelli cristiani sì, gli altri meno – non inseguiva solo il piacere narcisista della provocazione e non seminava un seme di risentimento: dava semplicemente voce a una memoria mai espunta nel paese delle leggi “razziali”, dove la religione faceva la differenza; ed esprimeva una spocchia che andava ben oltre la sua persona: e nel continente del colonialismo rifiutava di chiedersi se la cosa che spaventava era la diversità religiosa e non piuttosto la diversità religiosa che si emancipa dalla condizione di colonia, o di nazione affidata a regimi sanguinari che garantiscono il prelievo delle materie prime a condizioni vantaggiose. Soprattutto mostrava come a quell’altezza cronologica fosse difficile cogliere per un vescovo medio che c’era in quel segno una sfida teologica: perché il ricomporsi sincronico e dentro spazi geografici urbani di quel paesaggio plurale che ha segnato tutte le epoche storiche del mare Mediterraneo richiedeva quella sensibilità che, appunto, un cardinale incline alla polemica non voleva né avere né insegnare. Nei processi migratori, infatti, non c’erano solo gruppi che tornavano in Europa dopo essere morti per gli europei – l’onore mai reso ai sikh mandati in prima linea nella liberazione dell’Italia è un caso emblematico; o i discendenti dei massacri cristiani – come i copti dell’Africa italiana, davanti ai quali né la chiesa né lo Stato si sono mai inginocchiati. C’era il ricomporsi di un mosaico che andava compreso, interpretato, governato con un contributo spirituale che le chiese non hanno saputo dare.

Così s’è accumulato deficit: fino al default intellettuale e morale in base al quale tutti i musulmani, in un’indistinzione che è come tale prodromo razzista, che sono riusciti o hanno cercato di arrivare in Europa sono diventati il bersaglio di una fobia irrazionale e di uno strepitio discriminatorio.

Tutto questo ha impedito di sillabare richieste che andavano poste, e ha pasturato una paura che diventa facilmente diffidenza, rancore e infine odio. Odio così cieco che alla fine “chiama” la violenza terroristica o ne gode masochisticamente quando colpisce bestialmente, perché essa conforta la paura e vellica la violenza islamofobica – come se limitarsi a quella verbale non sia seminagione di lacerazioni che una volta prodotte non si cuciono più. Da questa islamofobia devono guardarsi tutti, ma soprattutto coloro che sentono arrivare proprio da questo lato l’antisemitismo che si potrebbe definire classico: come se, in un immaginario stradario della città dei perduti, il viale dell’islamofobia si trovasse a sfociare non inattesamente in piazza dell’antisemitismo. A quella piazza – è evidente – arriva anche una via non islamofobica, ma islamica. Fuor di metafora: in molti dei molti islam europei, venuti per migrazione, c’è una certa quota di antisemitismo “fresco”, di marca siriana o tunisina. Là dove l’ostilità antisraeliana è diventata una forma di patriottismo arabo e non è stata sterilizzata, denunciata, respinta con la nettezza che meritava dai musulmani stessi, si può perfino notare una correlazione fra quantità di questo odio antiebraico e il totale di quel veleno mai espunto dalla storia europea. Eppure questa componente, che va strenuamente combattuta ed estirpata con ogni energia morale, è meno dinamica dell’antisemitismo di vecchio conio. Anche perché in quell’antisemitismo vintage, che anno dopo anno riscopre gli stereotipi fascisti classici, che nella lunga crisi economica indica il colpevole di tanto scivolamento dei sicuri verso la insicurezza, dei “meno abbienti” verso la miseria in un impreciso capitalismo finanziario che la brachigrafia propagandistica identifica con George Soros – in quell’antisemitismo, dicevo, l’islamofobia funge da incubatore: perché affina e affila il senso comune e lo porta a ritenere che ci siano diversità che non possono essere composte; diversità che vanno espunte, anche se non si sa come (è il “purtroppo” che appare quando si parla di zingari o di profughi sbarcati), e che educano a quella logica spietata e alla ostentazione di una ignoranza invincibile.

Quella che vediamo non è dunque solo l’emersione dell’ignoranza di chi non sa che l’islam – come tutti – ha una storia di violenza e non meno vive tradizioni e tesori di tolleranza che hanno preservato l’ebraismo perseguitato dai re cattolicissimi, le minoranze cristiane e precristiane che sarebbero state cancellate negli imperi bizantini e latini, e che una banda di assassini impossessatasi del mito del califfato ha stuprato, ucciso, cacciato proprio perché lì erano sopravvissute. Accanto all’ignoranza un po’ plebea emerge la fierezza di averla messa a fondamento di una ferocia esibizionistica e ostentata: il cattivismo come nuova parola d’ordine impegnativa e categorica, la disumanità che scatta allo scoccare di qualche nuova ora delle decisioni irrevocabili. Una miscela devastante, foriera come in altri casi di distruzioni e miserie nere se la forza delle istituzioni democratiche si rivelasse – quod Deus avertat – incapace di ridestare le coscienze intorpidite.

Eppure in questo contesto malato si avvalora una serie di approssimazioni indimostrate e indimostrabili, come versi di una canzone di Jannacci: «quelli che l’islam sarà stato buono ma ora è tutto malvagio…; quelli che non sono io che sono razzista, sono loro che sono musulmani…; quelli che se io devo avere paura quando vedo una donna velata, è giusto che anche lei abbia paura quando vede me…». Insomma una serie di luoghi comuni che pompano insieme malvagità e terrore: e l’idea per cui se per liberarsi dalla insicurezza e dalla paura si deve ingenerare pericolo e minaccia, non si tratta di un male ma di un’autodifesa legittima, tempestiva, preventiva. Osservo per transennam che da qui alla meccanica genocidaria spiegata da Jacques Sémelin studiando i genocidi nell’Europa nazista e fascista, nel Ruanda, nella Bosnia, il passo è brevissimo: quando la persona più innocua del mondo si convince che se non elimina l’avversario ora sarà lui a ucciderlo, si è fabbricato un onesto impiegato dello sterminio. Ma non è su questo che vorrei fermarmi: bensì sull’effetto che questa cortocircuitazione fobica (aver paura di non fare abbastanza paura a coloro di cui si ha paura) ha su coloro che ne sono le vittime seconde. La paura che fa sentire oggi in pericolo o sospettati i musulmani, proprio attraverso la caricatura di coloro che arrivano, quasi che quella fosse l’avamposto di una islamizzazione che, se lascia tranquilla Londra, scatenerebbe il finimondo sotto le Alpi. Questo spavento che infligge distanziamento viene infatti dipinto (in tutta un’area molto segnata dal cattolicesimo e dalla sua catechesi antisemita…) non come il seme di disgregazioni in breve tempo incontrollabili (come dimostrano le seconde generazioni terroriste di Francia e Belgio) ma come un valore: modo efficace per limitare l’effetto pull del soccorso, per esibire una volontà di forzare la natura stessa della legge, per impossessarsi di un’identità attraverso l’uso spregiudicato di segni della fede dei padri, agitati come amuleti religiosi (l’espressione è del cardinale Gualtiero Bassetti) prima di sniffare i sondaggi profumati di un consenso ringhioso e perciò effimero.

Un cuore civile, una testa credente, sa che in tutto questo alberga un colossale inganno: che cerca di nascondere dietro una cortina di risentimento sociale il fatto che quando un quarto dei terrestri saranno africani, da quel continente madre verrà pace e pane (anche il pane dei mercati) solo se ora si semina pane e pace, e si difende fino alla morte il postulato umano che lotta per avere pane per ciascuno e pace per tutti. E insieme un cuore credente, una testa civile, sa bene che una sfida storica di questa portata in un pianeta in cui gli assi del potere si spostano verso oriente e la freccia del barometro istituzionale punta verso riduzioni sostanziali degli spazi democratici, sostituiti da miti imperiali e tecno-demagogie, non si cura con azioni buone, al termine delle quali poter dire al proprio Dio «ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, xenofobi, chiusi e sovranisti e neppure come questo proletario. Faccio il volontario due volte la settimana e pago le decime per i corridoi umanitari»; ma si cura con una visione del destino dell’umanità.

Non basta il dolce assenzio della depressione impotente che distilla moralismo letterario. Non bastano le scorciatoie privatistiche del “piccolo” in cui il male del mondo si svelenisce; non basta nemmeno una generica predicazione dell’accoglienza che discende regolarmente tanto dai pulpiti religiosi quanto da quelli repubblicani. Serve anche tutto questo e tutto il resto. Ma serve anche un balzo innanzi che parta da due dati: uno storico e uno che penso si possa definire teologico.

Il dato storico è che nessun movimento migratorio è mai stato reversibile. I processi migratori scrivono con la penna indelebile delle cucine materne i percorsi della tavola e della convivialità; mescolano le famiglie che dai tempi dei longobardi non hanno mai indovinato chi veniva a cena; intrecciano i vocabolari di arabi e normanni, inseriscono nella concezione romanistica del matrimonio la cultura barbarica, rimodulano le mentalità. E dunque il processo migratorio più recente ha riportato nel nostro paesaggio religioso fisionomie e sguardi al cielo che sono destinati a restare per sempre: anche quando le forme democratiche che la nostra superbia crede eterne saranno state perfezionate o erose dal vento del tempo.

Non solo: oltre che irreversibili i processi migratori non sono mai stati storicamente arginabili, ma solo interpretabili. E la loro interpretazione ne ha modificato il significato e il destino. Se il profumo del pane e la sete hanno sempre mosso gli esseri umani, ovvio che muova oggi coloro a cui il pane è stato rubato e i pozzi avvelenati da quella forma di guerra funzionale allo sfruttamento che è la guerra tribale dell’Africa postcoloniale o il bellum perpetuum della Mesopotamia moderna. E chi pensava che la diseguaglianza fosse eterna e inerte avrà tutto il tempo di ricredersi e capire come l’irrisione pratica della giustizia è incubatrice di ritorsioni e sanatorie non sempre indolori.

Il dato teologico è che questo movimento mette alla prova un sistema di libertà religiosa e di laicità nato quando si trattava di comporre la violenza fra cristiani, un po’ di antisemitismo e l’uscita dalla pratica religiosa di generazioni che in quella cristiana erano state educate. Oggi quel sistema deve pensare come scommettere su libertà davvero eguali e sulla capacità della libertà di creare quella trasparenza che consente al diritto di sanzionare i reati e impedisce al pregiudizio di immaginarli. E questo non è facile perché il riflusso verso modelli obsoleti appare irresistibile.

Non è un caso che in Italia un architrave della politica delle chiese “stabilite” – il clero come funzionario di Stato, che riceve salario e licenza dal potere – sia diventato un auspicio molto condiviso per l’islam, al quale si spera di dare degli imam dalla formazione controllata, quasi che la guida di una comunità conti più dei flussi economici che le danno prestigio. L’illusione che gli imam “repubblicani” possano essere estintori antiterrorismo da verificare periodicamente, suppone che a essi non si chieda di predicare la santità, ma la “moderazione”. Sì, perché l’analfabetismo religioso dilagante ha permesso di svendere la parola nobilissima del “radicalismo” ai terroristi e di affibbiare alla ricerca spirituale un’etichetta sbagliata dall’insopportabile sapore doroteo – nessuno ha mai ritenuto Renato Curcio un marxista radicale ed Enrico Berlinguer un marxista moderato.

Però per avere una pratica della libertà profonda serve qualcosa che non può venire dalle prefetture: non si tratta infatti di riconoscere il Dio dei migranti, e provvedere comperando sul mercato del dialogo e delle opere buone quel che serve; si tratta di riconoscere Dio nei migranti, sentire la voce dei Giona scaricati da un dag in forma di gommone che chiedono una conversione di giustizia che, nei sistemi politici democratici, può e deve diventare una politica di giustizia, di fraternità, di pace.