Dopo la chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto e quella avviata di Mineo vi saranno altri casi nella cornice del decreto sicurezza. Perciò serve premettere qualche chiarimento sui luoghi dove i migranti vengono ospitati, per dimostrare i paradossi del “governo del cambiamento” nella gestione dell’ospitalità degli stranieri che sbarcano in Italia.

Appena arrivano, transitano attraverso gli hotspot (per screening sanitario, identificazione, fotosegnalazione ed eventuale richiesta di protezione) e poi giungono nei Cara (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo), strutture collettive a livello regionale e/o interregionale destinate alla prima accoglienza, facenti capo al ministero dell’Interno, che dovrebbero ospitarli per un massimo di 35 giorni (d.lgs. n. 25/2008 e circolare n. 1724/2015): di fatto, i Cara sono usati anche per la seconda accoglienza, data la carenza di posti nelle sedi a ciò adibite. Nel 2015 è stato disposto (d. lgs. n. 142) che tali strutture fossero sostituite da «centri governativi di prima accoglienza», hub regionali o interregionali, ma la legge ha stentato ad essere attuata. Per la seconda accoglienza è previsto il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), istituito con l. n. 189/2002, che il decreto sicurezza ha ora destinato esclusivamente a chi ha già ottenuto una risposta positiva alla domanda di asilo e a minori stranieri non accompagnati (Siproimi), restringendone così l’utilizzo.

Lo Sprar —  coordinato dal Ministero dell’Interno in collaborazione con l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (Anci) —  è una rete su base comunale formata da strutture di piccole dimensioni, facenti capo a enti no profit che svolgono progetti di accoglienza integrata, formazione e inclusione sociale, sotto il controllo dell’ente locale anche per la gestione di fondi ministeriali di cui usufruiscono; è previsto che gli immigrati vi restino per sei mesi, rinnovabili di altri sei mesi, e comunque fino alla decisione sull’istanza di asilo o sull’eventuale ricorso. Dato il sovraffollamento delle strutture di prima e/o seconda accoglienza, la legge 142/2015 ha disposto la creazione di centri di accoglienza straordinaria (Cas): queste strutture, pur sorte per fronteggiare situazioni emergenziali e con affidamenti per lo più diretti da parte delle prefetture, vengono anch’esse usate come sedi di lunga permanenza dei migranti.

Il caso del Cara di Mineo

Dall’indagine svolta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza migranti(2017) emergeva che il Cara presentasse elementi di criticità tali da farne «un caso emblematico, non solo perché si tratta della struttura più grande d’Europa destinata all’accoglienza dei migranti, ma anche perché rappresenta in qualche modo un caso di scuola delle contraddizioni e dei limiti insiti in un approccio evidentemente fallimentare al fenomeno migratorio e alla gestione dell’accoglienza». In particolare, «era facilmente prevedibile che concentrare migliaia di persone in una cittadella chiusa e circondata dal nulla, in un’area priva di servizi e infrastrutture, ma comunque a breve distanza da un paese di 5000 abitanti, avrebbe determinato tensioni, sia all’interno del centro che nel rapporto con la città, e rischi per la sicurezza pubblica. (…) Le condizioni igienico-sanitarie della struttura sono precarie, gli appartamenti spesso fatiscenti. (…). Nel centro è evidente la presenza di un’economia sommersa in cui circola merce di dubbia provenienza, ed è forte il dubbio, riscontrato anche nelle audizioni di organizzazioni umanitarie che hanno operato all’interno del centro, che ci siano forme di sfruttamento, traffico di droghe e prostituzione. Le forze dell’ordine sono a conoscenza del fatto che si sono verificati abusi e violenze, ma si limitano a vigilare a distanza ritenendo tale fenomeno in parte fisiologico in quel contesto. Complessivamente le condizioni di vita all’interno del centro risultano essere incompatibili con standard qualitativi che garantiscano il rispetto della dignità e dei diritti della persona».

Anche per altre ragioni il “modello Mineo” apre «pericolose falle sul piano della trasparenza e della legalità. La Commissione ha potuto infatti rilevare, nel corso dei suoi sopralluoghi, scarsa trasparenza e molte opacità nell’amministrazione: dalle assunzioni del personale per chiamata diretta e senza alcuna verifica dei requisiti professionali alla scelta clientelare dei fornitori, a prescindere da ogni criterio di concorrenza, per arrivare alla gestione poco trasparente del pocket money e alle irregolarità nella comunicazione alla Prefettura del numero delle presenze giornaliere, questione che ha causato l’avvio di una specifica indagine giudiziaria sull’ipotesi del reato di truffa».

Tutto questo dimostra «il fallimento oggettivo di un approccio all’accoglienza basato su grandi centri in cui concentrare migliaia di migranti, per almeno tre ordini di ragioni. Anzitutto perché quel modello produce ambienti spesso invivibili e lesivi dei diritti e della dignità umana; inoltre perché genera nei territori allarme sociale e problemi di sicurezza; infine perché può prestarsi ad opacità di gestione ed episodi di illegalità, se non aprire il varco a vere e proprie infiltrazioni mafiose, come emerge anche dalle inchieste relative ad altri centri».

Una lunga sequela di criticità hanno portato alla conclusione che il Cara di Mineo andava chiuso, così come altri centri di accoglienza che versano in condizioni similari. Eppure, nonostante ciò, non può dirsi che la gestione dell’ospitalità degli stranieri sia stata finalmente razionalizzata, anche a seguito del decreto sicurezza. Innanzitutto, come accennato, il sistema Sprar — composto delle realtà virtuose di cui si è detto —  prima aperto pure ai richiedenti asilo, è stato limitato dal suddetto decreto a rifugiati e minori non accompagnati. Quindi, i richiedenti asilo che si trovavano nei Cara in attesa di accedere agli Sprar adesso non hanno più titolo a tale accesso e pertanto, mentre la loro istanza viene esaminata, sono destinati a permanere in centri nei quali vengono forniti loro solo servizi minimali o ad allontanarsene — come hanno fatto alcuni stranieri prima ospitati nei Cara di Castelnuovo di Porto e di Mineo —  cercando altri rimedi nelle strade.

Inoltre, restano senza accoglienza i titolari di protezione umanitaria che si trovavano nei Cara in attesa di accedere agli Sprar: dopo il decreto sicurezza non ne hanno più diritto e —  a differenza dei richiedenti asilo
— non spetta loro altra forma di ospitalità, quindi non c’è che la strada. Per altro verso, va rilevato che le strutture del nuovo sistema Sipriomi, pur essendo luoghi gestione trasparente e operatività inclusiva, finiranno per subire una consistente riduzione, a causa della restrizione degli aventi diritto a rimanervi, del limite di permanenza previsto e del calo delle concessioni di protezione internazionale, quindi di soggetti titolati a entrarvi. Restano i Cas, basati su logiche emergenziali, gestiti in maniera disomogenea, quindi poco adatti a situazioni permanenti: eppure, ad esempio, il comune di Milano ha appena pubblicato un bando relativo a tali centri.

Questo panorama induce a pensare a una gestione quasi schizofrenica del sistema di accoglienza: come se il ministro dell’Interno, anziché amministrare il sistema nel modo più efficiente, intendesse lasciarlo allo sbando. O forse c’è una lucida razionalità in tutto questo: il disegno di incentivare l’insicurezza e riproporla come tema di campagna elettorale. Perché il ministro dell’Interno, che oggi vanta la quasi totale riduzione degli sbarchi —  senza peraltro preoccuparsi del prezzo cui ciò avviene —  e un numero di rimpatri superiore a quello dei nuovi arrivi, sembra dimenticare, da un lato, che occorre gestire l’ospitalità di coloro i quali si trovano regolarmente in Italia; dall’altro, che serviranno decenni per riportare al loro Paese gli immigrati irregolari, inclusi quelli divenuti tali proprio a opera del decreto voluto dallo stesso ministro. La chiusura di Cara come quello di Mineo è doverosa ed era stata reclamata da più parti. È doveroso però trovare anche dignitose soluzioni alternative, anche se questo pare interessare a pochi.