Alla premiazione dei 91esimi Academy Awards che hanno regalato ben tre statuette all’assai incensato Green Book di Peter Farrelly, tutti hanno notato la reazione stizzita di Spike Lee che correva con il suo potentissimo BlacKkKlansman, la storia vera di un poliziotto nero che si infiltra nel KKK ridicolizzandolo, premiato solo come migliore sceneggiatura originale.
Tutti hanno visto il regista icona della comunità black cercare di lasciare la sala durante la premiazione, prima che l’attenta regia televisiva lo buttasse fuori campo. Se si trattasse di invidie tra artisti non ci sarebbe da sprecare nemmeno una riga. Ma allargando l’immagine sulla platea si vede bene che non era solo Spike Lee a non battere le mani per lo zuccheroso film che racconta il rapporto tra il pianista (non chiamatelo jazz, non ci ha mai tenuto) afroamericano Don Shirley e il suo autista italoamericano Frank Vallelonga detto Tony Lip, in un viaggio nel profondo Sud degli Stati Uniti all’inizio degli anni Sessanta. Anche se per pochi istanti si vede bene durante la premiazione che una bella fetta di platea black storce il naso.
Ma è sui social che gli afroamericani e le minoranze si sono scatenate contro il film comunque ben interpretato da Mahershala Ali e da Viggo Mortensen. Nella pagina ufficiale Facebook di Green Book, si leggono frasi pesantissime a commento della pellicola che si porta a casa tre statuette come miglior film, miglior attore non protagonista per Mahershala Ali e miglior sceneggiatura: «È un film spazzatura che guardano solo i bianchi che vogliono convincersi che non sono razzisti».
E ancora: «Non è certo il miglior film dell’anno. È molto lontano dall’esserlo». «Un film terrificante che piace solo ai bianchi». «Non è possibile che abbia vinto proprio durante il Black History Month. Cancellate gli Oscar per sempre». Fino a quell’accusa che lo bolla per sempre: «È un film razzista». A indignare la comunità afroamericana è la sceneggiatura che racconta la storia di un autista bianco che “salva” un afroamericano in vari modi durante il viaggio nel Profondo Sud: dalla polizia razzista, dai bianchi che si divertono con la sua musica ma non lo ammettono al ristorante o alle toilette per soli white e alla fine pure da se stesso.
Quello che si vede in due ore di film è lo stereotipo di sempre. Dove a comandare sono naturalmente i bianchi, molto spesso i cattivi che opprimono i neri e trattano dall’alto al basso chi non ha il colore giusto della pelle. Oppure quelli buoni, che aiutano i neri che, poverini, appaiono incapaci di cavarsela da soli. Come se i neri avessero bisogno di aiuto e – sottinteso – senza i bianchi non andrebbero da nessuna parte.
Reazioni stizzite ma ben argomentate quelle della comunità afroamericana, specie di questi tempi che una certa cinematografia decisamente più militante e più attenta, riesce finalmente a bucare le strette maglie di Hollywood. Dai social si leggono giudizi tranchant come questo: «Si vede che è stato scritto da un bianco. Era meglio Black Panther». Il paragone è impossibile. Ma Green Book svapora davanti alla potenza del film di Ryan Coogler che esalta un mondo di supereroi, creato dalla Marvel per accontentare gli adolescenti afroamericani alla ricerca di un loro mito, in un universo dove i bianchi nemmeno esistono. Per non parlare delle polemiche innescate dagli stessi famigliari di Don Shirley che giurano di non essere neanche stati contattati dalla produzione. Per loro il film è troppo sbilanciato sulla figura di Tony Lip, non è vero che il pianista tenesse a distanza la comunità afroamericana – emblematica l’improbabile scena in cui Viggo Mortensen gli insegna a mangiare il pollo fritto, che è un po’ il simbolo della cucina black Usa – e che la sua formazione artistica e culturale sia avvenuta in Europa e non nel Sud degli States. Alla fine sembra di capire che Green Book sia un film lastricato di buone intenzioni ma che involontariamente cada negli stereotipi di sempre. Quelli per intenderci descritti da Tom Wolfe, uno scrittore non certo di sinistra, che nel 1970 coniò il termine radical chic raccontando un party organizzato dal direttore d’orchestra Leonard Bernstein e da sua moglie a favore del movimento delle Black Panther. Un party molto chic dove gli unici neri ammessi erano i camerieri in guanti bianchi che giravano con i vassoi tra gli ospiti bianchi.