Che futuro riserverà il XXI secolo all’Africa? Che prospettive attendono i giovani della prima generazione africana “globale”, con sogni e progetti non dissimili da milioni di loro coetanei occidentali? Cerchiamo una risposta nel report appena pubblicato dalla Mo Ibrahim Foundation (Africa’s youth: jobs or migration?), emanazione no profit del miliardario sudanese Mohammed “Mo” Ibrahim, pioniere delle telecomunicazioni in 22 Paesi a sud del Sahara. Una risposta che una volta tanto arriva dal Meridione “connesso” del mondo, e non dal Nord statisticamente privilegiato, e che proviamo a riassumere in quattro punti.

Primo, dimenticare i luoghi comuni dei politici europei. Gli africani che hanno scelto di lasciare il loro Paese di origine (36,3 milioni nel 2017) rappresentano solo il 14% degli emigrati in giro per il mondo, una frazione molto più piccola rispetto, ad esempio, a quella degli europei (23,4%) che pure sono la metà. L’Europa resta una meta ambita ma non  il centro del mondo, almeno per i migranti africani: metà di loro (ma la percentuale sale al 70% tra la popolazione sud sahariana) sceglie di lavorare e di vivere in un altro Paese africano, e solo 1 su 4 sceglie invece l’Europa.

Per gli studenti africani all’estero la Cina è oggi la seconda destinazione dopo la Francia mentre Sud Africa, Arabia Saudita e Malaysia precedono comunque la Germania nella Top 10.  Il “continente nero”, per altro, ospita a sua volta 24,7 milioni di migranti provenienti dal resto del mondo,  che se non è un pareggio poco ci manca. 

Secondo. I giovani sono un asset strategico per l’Africa.  Sono i più propensi a spostarsi e a cambiare,  nell’80% dei casi in cerca di migliori opportunità economiche e di un lavoro che oggi “a casa loro” difficilmente potrebbero trovare. Guerre e persecuzioni proiettano ancora un’ombra sanguinosa sulla realtà del continente ma, dati Onu alla mano,  i rifugiati rappresentano in tutto il 20% dei flussi. 
L’Africa ha invece un (grosso) problema di squilibrio demografico tra generazioni, alla base del suo cosiddetto “dependency ratio”: in poche parole ogni 100 adulti in età lavorativa (15-64 anni) qualcuno deve farsi carico di altre 78 persone, troppo anziane (over 64) o, molto più spesso, troppo giovani (0-14) per trovare un lavoro.

Nella seconda metà del secolo l’incidenza degli adulti è destinata a crescere rispetto ai giovanissimi, ristabilendo così un punto di equilibrio, ma per ora, e per i decenni a venire, non è così. Oggi il 60% della popolazione africana non raggiunge 25 anni e i giovani (15-34) rappresentano la principale risorsa economica del continente: grazie ai progressi raggiunti nel decennio 2008-2017, sono la generazione più sana e meglio educata di sempre, ormai a un’incollatura dalla media globale nelle classifiche dello sviluppo e della scolarità giovanili. 

Sfortunatamente — ed è il terzo punto — il mercato del lavoro in Africa non ha tenuto il passo: tra il 2000 e il 2014, mentre l’economia correva (+3% all’anno), l’occupazione cresceva a passo di lumaca (+1,8%). Per molti aspetti quelli africani non sono Paesi per giovani: la disoccupazione tra i 15  e i 24enni  è più del doppio (13,4%,) che tra gli over 25.

Ma se un diplomato o un laureato è al primo impiego, trovare un lavoro sarà anche più difficile.


L’occupazione informale e i “lavoretti” sono diventati la regola per giovani e meno giovani (fino a 29 anni) in Madagascar (92.8%), Togo (90.0%), Malawi (85.4%), Uganda (83.5%), Benin (81.0%), Zambia (80.7%), Congo (80.3%). Nel 2030 si calcola che 30 milioni di giovani si affacceranno ogni anno sul mercato del lavoro, con quali prospettive nessuno oggi può dirlo. In Africa l’industrializzazione è arrivata tardi ma la deindustrializzazione — osserva lo studio — forse è arrivata troppo presto; resta da capire quale sarà  l’impatto che la “quarta rivoluzione industriale” e il digitale potranno offrire all’occupazione della regione, a partire dal rilancio dell’agricoltura locale.

Quarto e ultimo punto: opportunità o diritto universale, non ci sono alternative alla mobilità per i giovani africani. Né ci saranno negli anni a venire. L’Unione Africana ha già individuato nella mobilità interna la chiave dell’economia regionale e la vera priorità di Agenda 2063 per un’Africa “senza confini”. I framework istituzionali in realtà non mancano, e almeno otto trattati inter-africani al livello delle cosiddette REC (Regional Economic Communities) che riguardano in un modo o nell’altro la mobilità nel continente sono in corso o in attesa di ratifica. Attraverso il lavorio diplomatico, i pilastri  di questa strategia al momento sono tre: liberalizzare i visti richiesti alle frontiere nazionali (scesi dal 75% del 1980 al 57.0% del 2008 al 22.0% attuale); potenziare le infrastrutture regionali (strade e corridoi aerei); valorizzare il capitale umano con la portabilità del titolo di studio e le politiche contro lo skill imbalance (squilibrio tra domanda e offerta).
Dal punto di vista africano, il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration (GCM) stesso, sottoscritto nel 2018 a Marrakech da 164 Paesi, ha costituito l’estensione di questo percorso in ottica Onu. Il Global Compact integra in pratica le policy della migrazione su scala locale, interna e internazionale, lanciando un ponte verso Europa e Asia. 

«I Paesi africani e quelli occidentali — secondo Mo Ibrahim Foundation — hanno narrative divergenti sul fenomeno migratorio: i primi si concentrano sull’impatto positivo per la crescita, i secondi sulle conseguenze per la stabilità sociale». Mentre gli uni si preoccupano della sicurezza e dei confini,  gli altri si preoccupano oggi di potenziare la mobilità.