Esperance Hakuzwimana Ripanti a cura di Igiaba Scego
Future. Il domani narrato dalle voci di oggi
(Effequ, 2019)

Non poteva che chiamarsi Future, questo libro che raccoglie i racconti di undici scrittrici afroitaliane. Undici e tutte donne e anche questo ha un suo perché. Future perché tracciano il solco dei prossimi anni, in un momento di grande fermento che vede i nuovi italiani protagonisti dell’arte, della musica e della letteratura. Ma l’Italia di oggi, con la sua rabbia e le sue paure, sono la realtà distopica da cui partire e con cui fare i conti. Di più. Igiaba Scego, la scrittrice nata a Roma e di origini somale che ha curato l’antologia, nell’introduzione spiega che questo vorrebbe essere anche un “J’accuse”, come quello di Émile Zola contro i persecutori del capitano Alfred Dreyfus, accusato di alto tradimento nella Francia di fine Ottocento solo perché di origini ebraiche. Un progetto ambizioso a cui non si sottraggono Leila El Houssi, Lucia Ghebreghiorges, Alesa Herero, Esperance Hakuzwimana Ripanti, Djarah Kan, Ndack Mbaye, Marie Moïse, Leaticia Ouedraogo, Angelica Pesarini, Addes Tesfamariam e Wii. Un “J’accuse”, ma come scrive la curatrice «Pure un inno d’amore per un futuro che desideriamo diverso».
Fabio Poletti

Per gentile concessione delle autrici e dell’editore, pubblichiamo un estratto dal racconto Lamiere della scrittrice italoafricana di origini ruandesi Esperance Hakuzwimana Ripanti, tratto dal libro Future.

L’estate di qualche anno dopo la chiamarono “L’estate delle lamiere” per via di un bracciante del Sud morto assassinato proprio mentre cercava di recuperarne alcune, di lamiere, e costruirsi qualcosa che assomigliasse a una casa. Soumaila Sacko, si chiamava. Ora a lui e a tutti gli altri hanno dedicato i nomi di alcune vie, piazze o parchetti fatiscenti; i caduti di una guerra assurda e incredibile.
L’estate delle lamiere è iniziata quando io e Awa saremmo dovuti finire da qualche parte in Spagna; io per fare pace con le faccende dei treni, lei dopo aver visto un documentario sull’ETA. Non riusciva mai a smettere di pensare alla memoria, alla battaglia. Sua o di altri, non le importava, passata o futura, non c’era differenza. La vedevo scrollarsi di dosso gli anni lievi della gioventù e sotto i vestiti diventava donna, concreta, fiera, feroce.
Era la leonessa bianca uscita dalla gabbia. Ma qualcuno stava tentando di rimettercela. Awa era ben diversa da come mi sentivo io in terza superiore, ma il suo sfiorare la rarità era un difetto in un paese terrorizzato dai barconi pieni di disperazione e non dalla disperazione di essere tutti sulla stessa barca.
In Spagna non ci arrivammo mai perché iniziò a piovere. Pioveva qualsiasi cosa, ma più di tutto erano nomi: Soumaila Sacko fu il primo, poi ci fu Idi Diene, Assane Diallo, Konate Bouyagui ferito da colpi di pistola, un rifugiato sudanese insultato alla fermata dell’autobus, Ibrahim Manneh morto per un mal di pancia dopo essersi visto rifiutato il soccorso da numerose ambulanze. Li ricordo ancora i nomi, anche se erano tanti e continuavano ad aumentare. Awa li sapeva a memoria, e presto ho incominciato a ripetermeli anche io; prima sottovoce e poi con orgoglio. Il nostro rosario personale e terribile.

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