Laureato in Medicina e Chirurgia a Roma, è palestinese nato in Israele. Dirige tre centri di riabilitazione e un poliambulatorio del Gruppo Polispecialistico Internazionale dove lavorano più di centocinquanta persone tra medici, fisioterapisti e personale con vari compiti sanitari. È presidente di AMSI, Associazione medici di origine straniera. È stato il primo medico di origine straniera ad entrare nel Consiglio dell’Ordine Nazionale dei Medici e attualmente per l’Ordine coordina i rapporti fra i Comuni e gli Affari esteri. Lo abbiamo intervistato per capire come mai si investe tanto sulla formazione dei medici stranieri che poi però non possono accedere ai concorsi.
Ci può raccontare chi è il dottor Foad Aodi?
«Sono arrivato in Italia tra il 1982 e 1983, perché in Israele c’era il numero chiuso, per cui ho scelto di venire a laurearmi qui. Ho imparato l’italiano a Siena frequentando il corso di lingua italiana presso l’università. Mi sono poi trasferito a Roma, dove mi sono laureato in Medicina, specializzandomi in Ortopedia. Con molta soddisfazione, sono poi tornato alla Sapienza ad insegnare Fisiatria e Riabilitazione vascolare, presso la cattedra di Cardiochirurgia».
Come sono stati i suoi anni da studente?
Amo il calcio, penso che questo sia uno dei motivi per cui ho scelto di studiare qui anziché in Germania o in altri Paesi europei. In Israele ho giocato a pallone con la mia squadra in serie B e tifavo per la squadra nazionale italiana.
«Gioco a calcio ancora oggi. Mi sono innamorato non solo del calcio che si gioca in Italia, ma anche della sua cultura, della sua bellezza e delle sue tradizioni democratiche. Non c’è stato mai razzismo nei confronti di noi studenti stranieri, anzi all’epoca eravamo pochi e siamo stati accolti molto bene nelle città dove abbiamo studiato e dove ho studiato come Napoli, Siena e Roma. Mia moglie è italiana e insegna in una scuola superiore romana. Abbiamo due figli. Nadir, che lavora con me nel gruppo polispecialistico internazionale e si sta laureando in Podologia, e Letizia, che sta finendo il liceo linguistico».
Quando è nata AMSI? Perché si è sentita l’esigenza di un’Associazione di medici di origine straniera?
«Nel 2000, insieme a tanti colleghi provenienti da vari Paesi dell’Est Europa e da Paesi sia arabi che africani, abbiamo dato vita all’Associazione medici di origine straniera. La necessità di unirsi era dettata dalle varie difficoltà che si incontravano nell’esercizio dalla professione, come i problemi per l’iscrizione all’Ordine dei medici, oppure l’inserimento nel mondo del lavoro della sanità».
Pensate che, fino al 1989, era impossibile senza cittadinanza italiana iscriversi all’Ordine dei medici, anche se ci eravamo laureati nelle università italiane. In questi anni, abbiamo aiutato e aiutiamo molti medici e operatori della sanità di origine straniera a superare i problemi che possono avere e organizzato corsi di aggiornamento professionale.
«In tutti questi anni, abbiamo fatto più di seicentocinquanta tra congressi, convegni, corsi. Abbiamo creato ambulatori per cittadini stranieri presso le ASL, assistendo anche chi era senza permesso di soggiorno e con difficoltà con la lingua italiana. Abbiamo portato a conoscenza delle autorità competenti e alla popolazione di origine musulmana il problema della circoncisione. Infatti stiamo cercando un accordo con il ministero per la circoncisione preventiva, che eviterebbe i danni che molti bambini subiscono a causa delle circoncisioni fatte al di fuori di ogni protocollo sanitario. Come associazione, abbiamo partecipato a molti progetti sanitari in Paesi sia africani che arabi come Yemen e Palestina, dove c’era bisogno di portare cure ai bambini. Uno di questi è Emergenza Sorrisi, con cui è stato restituito il sorriso a molti bambini nati con malformazioni facciali».
Quanti sono i medici e gli operatori sanitari di origine straniera?
Durante l’ultimo congresso dell’AMSI, abbiamo presentato i dati della presenza di medici e operatori sanitari di origine straniera in Italia. Si tratta di 80.000 tra medici, infermieri, fisioterapisti, odontoiatri, podologi e psicologi; di questi 80.000 ci sono 19.000 medici di origine straniera provenienti da tutto il mondo divisi in tre fasi di immigrazione.
Quali sono queste tre fasi?
«La prima fase, quella tra gli anni ’70 e ’90, è stata caratterizzata dall’arrivo di studenti specialmente dai Paesi arabi, Palestina, Siria, Libano, Giordania e dei Paesi africani come Camerun, Congo e Nigeria, dalla Grecia, da Israele e anche dai Paesi sudamericani. Il 45% dei questi studenti dopo la laurea è rimasto in Italia e si è specializzato. La seconda fase è coincisa con la caduta del muro di Berlino, quando arrivarono nel nostro Paese medici già laureati e specializzati dalla Russia e da altri Paesi dell’Est Europa con un’età media intorno ai trentacinque anni: per loro il problema era il riconoscimento della laurea in medicina e della specializzazione conseguita nei loro Paesi d’origine a cui si aggiungeva il problema della lingua.
La terza fase è coincisa con le primavere arabe, per cui si è trattato dell’arrivo di medici arrivati da Siria, Egitto, Tunisia, ma anche Somalia e Sudan, anche in questo caso, tutti già laureati e specializzati. Per questo la maggioranza dei medici di origine straniera ha una specializzazione. Una volta che i titoli vengano riconosciuti, rimane però il problema della cittadinanza.
«Senza la cittadinanza, non si può accedere ai concorsi pubblici e il concorso per medicina generale, per cui l’85% di questi medici lavora nelle strutture private».
Da molto tempo presentate proposte ai vari ministri della salute, riguardo il grave problema dell’accesso alle scuole di specializzazione per tutti i medici laureati. In cosa consiste la proposta?
«Da anni abbiamo proposto al Governo italiano due progetti gemelli: “La buona emigrazione” e “L’immigrazione programmata”.
“La buona emigrazione” consiste in un progetto che prevede diritti e doveri nelle politiche di integrazione. Garantisce integrazione e sicurezza, senza strumentalizzazioni sulla pelle dei degli immigrati. Chiede di risolvere le difficoltà che impediscono ai nostri medici di arrivare ai concorsi e di poter accedere a contratti di minimo cinque anni nella struttura pubblica e, dopo aver superato il concorso, prevede un termine per ottenere la cittadinanza.
Il nostro progetto sull’immigrazione programmata consiste nella programmazione dell’inserimento dei medici già specializzati, che assicura il diritto alla salute e il diritto delle cure per tutti causata dalla mancanza di medici specializzati e elimina la suddivisione in medici di serie A e di serie B.
«I medici di origine straniera pagano le tasse, sono integrati e hanno bisogno solo di integrarsi maggiormente e non essere esclusi. Molti concorsi sono disertati perché mancano gli specialisti che potrebbero concorrere, mentre tra gli stranieri c’è già chi ha il titolo per accedervi».
Cosa risponde a chi fa resistenze alle vostre proposte?
Proporre di far lavorare i medici di origine straniera che non hanno cittadinanza italiana, ma che lavorano in Italia già da molto tempo e comunque come minimo da cinque anni, non vuol dire che vogliamo togliere posti ai medici italiani. Abbiamo chiesto 10.000 borse di studio nelle scuole di specialità per i giovani medici, sia italiani che stranieri.
«Siamo molto dispiaciuti di alcune affermazioni discriminatorie di alcuni sindacati, associazioni e forze politiche, che non condividono questa nostra proposta perché sostengono che vogliamo riempire di medici stranieri gli ospedali. Non è così: noi vogliamo inserire i nostri medici che sono già qui, non vogliamo far venire i medici dall’estero. Ai nostri medici e ai nostri professionisti della sanità dico di assolvere i loro doveri, di imparare molto bene la lingua e di conoscere molto bene la cultura italiana. Collaborare molto con i colleghi italiani e di ascoltare di più, intensificando il rapporto di fiducia tra medici e pazienti».