Oussama Mansour è italiano, ma «di aspetto differente dalla maggioranza» e costretto a fare fronte ai pregiudizi che in passato avevano già colpito i suoi genitori. Pubblichiamo il suo intervento nell’editoriale dei lettori, creato per lasciare spazio a chi ci scrive la propria opinione in modo argomentato, stimolare la discussione e la riflessione della nostra community.
Sono un moro emiliano. Mi piace definirmi in questo modo, con una ironia che amo particolarmente e mi fa dimenticare dove sono capitato.
Ho ventisette anni e sono di Bologna. A dire il vero sono di Carpi, ma vivo in città da diversi anni.
Una delle mie maggiori frustrazioni è che nel mio Paese non posso dire che sono italiano senza ricevere in risposta spesso una risata o una occhiata dubbiosa.
Perché? Cominciamo dalla ultime elezioni:
La maggior parte degli elettori oramai sono over 45, nati fra gli anni 50, 60 e 70. Figli dell’Italia del primo edonismo, dove tutto sommato studiare serviva a poco. Spesso infatti bastava uscire dal circuito scolastico e farsi raccomandare per trovare un lavoro. Se lo perdevi, avevi buona probabilità di trovarne un altro pochi giorni dopo. Si tratta di un’Italia che non esiste più, ormai è chiaro.
Temo pure di avere un’ ulteriore cattiva notizia: non torneranno mai quegli anni. Oggi la competizione è su scala globale e spesso l’importanza dei Paesi si misura sulla capacità di esportazione; sul consumo interno si punta poco o niente. Conseguentemente un crollo disastroso del potere di acquisto.
C’è in atto un sensibile cambiamento sia della percezione sia della composizione della società. Molti, vedendosi sottratto il benessere sul quale contavano per il resto dei loro giorni, non riescono a spiegarsi le complessità del fenomeno. Soprattutto la rapidità del cambiamento.
E dire che gli immigrati arrivano in Italia dagli anni 70. In certi casi addirittura prima (vedi la comunità cinese).
Questo dramma economico e sociale, spesso si può interpretare con le ragioni più semplici ed evidenti di cambiamento, visibile nelle strade: i migranti. Dalle facce e dall’aspetto diversi dalla massa alla quale si è abituati. Spesso poi i gruppi etnici minoritari hanno una composizione giovanile superiore a quella della massa. E si portano appresso una fame atavica difficile da soddisfare.
Tutto si chiude e diventa ancor più complesso per entrambi.
Di mezzo ci andiamo pure noi, i figli di migranti. Spesso nati qui, bilingue, ma di aspetto differente dalla maggioranza. Inondati dagli stereotipi che colpivano i nostri genitori, per ritrovarci ad affrontare nel quotidiano le ferite che hanno solcato l’esistenza dei nostri parenti sin dal loro arrivo nel bel Paese.
La soluzione che ci propone la società è quella di esser mediocri e di pretendere poco. Anche nel mio Paese (l’Italia), ci sono due narrazioni disponibili: o quella del migrante che dev’essere aiutato, in fondo bravo e buono (i buonisti…), o quella che li vorrebbe tutti a casa loro, convinta che tutti, siano potenziali criminali. Compresi quelli che senza immigrati avrebbero serie difficoltà a trovare manodopera disposta a lavorare alle stesse condizioni.
In mezzo: il nulla. Una accozzaglia di pensieri e tesi distorte e la mancata accettazione che oramai sono qui (i migranti). Io non ho scelto di venirci.
Bisognerebbe accettare un paio di punti:
Che siamo incapaci (noi italiani) di attuare rimpatri di massa. Che la società è già cambiata molti anni fa e che bisogna avere lungimiranza per non creare ulteriore caos sociale.
Molti di quelli come me sono italiani: e temo che non andremo da nessuna parte. Quando un’educazione alla differenza?