Alvaro Gáfaro Barrera, Management Consultant, da trent’anni si occupa di diversity nelle aziende e nelle multinazionali. Ha scritto a NuoveRadici.World per spiegare perché le imprese, indipendentemente dalla loro grandezza, devono essere preparate ad affrontare la trasformazione dell’Italia in una società multiculturale.

In questo nostro mondo ormai globalizzato, almeno economicamente e tecnologicamente, coesistono due forze parallele che sembrano destinate a non incontrarsi mai. Da una parte quella dell’economia, del commercio, sempre più planetaria e quindi bisognosa di entrare in rapporto e di gestire la diversità, che viene vista come risorsa. Dall’altra quella degli estremisti, dei nostalgici dell’autarchia, di coloro che vivono l’altro come il nemico e la diversità come una minaccia.

Negli ultimi trent’anni ho lavorato a stretto contatto con organizzazioni ed imprenditori che hanno deciso di andare oltre frontiera, di portare prodotti e servizi oltre i confini nazionali, il che ovviamente richiede dialogo a stretto contatto con la diversità.

Vent’anni fa, appena rientrato dall’Australia dopo aver completato un master in organizzazione aziendale, Unindustria di Padova mi affidò un progetto di formazione per mediatori linguistico culturali, capaci di aiutare gli imprenditori ad entrare in contatto con manodopera straniera. Già allora si faticava a trovare italiani che facessero certi lavori. D’altronde, se sei laureato, andare in fabbrica diventa la tua ultima opzione. Nella mia zona, Parma, se non fosse per i mandriani indiani e i lavoratori nordafricani, non avremmo a tavola né il parmigiano né il prosciutto.

Grazie alla mia conoscenza delle lingue e dei mercati esteri sono stato testimone della trasformazione dell’Italia in un’economia globalizzata e una società multiculturale. Bulgari, Barilla, Magnetti Marelli sono solo alcune delle aziende nelle quali ho gestito workshop sulle dinamiche interculturali. Ho trovato sempre nei partecipanti molto interesse e curiosità a superare barriere linguistiche e culturali per arricchirsi con la diversità. Ho aiutato anche cooperative di servizi sociali come Proges a trovare eserciti di infermieri, badanti, personale di pulizia, perlopiù stranieri, e insegnare loro a lavorare in armonia con le nostre leggi e consuetudini.

Le organizzazioni, quando hanno un obiettivo in mente, non guardano né al colore della pelle, né alla lingua o alla religione. Ecco perché diventano un ottimo laboratorio per l’integrazione: sono costrette a scegliere la miglior risorsa disponibile in un dato momento.

In questo non sono diverse dalle squadre di calcio. Vorrei vedere dove andrebbe la Juventus se applicassimo il “prima gli italiani”, quindi senza Ronaldo, Dybala o Mandzukic.

Quando mi chiedono dove ho acquisito le competenze per realizzare questo lavoro rispondo a casa mia e viaggiando. Sono nato in Colombia, dove ho studiato Legge. Nel 1985 arrivai a Roma, conobbi mia moglie l’anno successivo, una ragazza italo australiana nata a Melbourne da genitori italiani emigrati negli anni ’50, rientrati in Italia sette anni fa dopo una vita all’estero. Ci siamo sposati nel 1987 e i nostri figli sono nati a Parma tutte e due. Adesso mia figlia abita con suo marito (italiano) e mia nipote in Danimarca, dove si sono spostati perché guadagnano il triplo di quello che prendevano in Italia come ingegneri. Mio figlio, che parla sei lingue, abita a Londra, dove ha lavorato per importanti multinazionali americane. Ho vissuto tre anni in Australia e giro continuamente il mondo per lavoro e per piacere.

La diversità non mi spaventa anzi, fa parte della mia quotidianità, mi incuriosisce, mi diverte, mi definisce: mi sento molto italiano in quanto colombiano e molto colombiano in quanto italiano. In me convivono queste due realtà.

Qualcuno spieghi agli estremisti che una marcia indietro non è possibile. Di fronte ai vantaggi della globalizzazione non c’è nazionalismo che tenga.