Nei mesi scorsi, servizi giornalistici avevano trattato di migranti rimandati dalla Svizzera all’Italia attraverso la frontiera di Chiasso, senza che venisse loro rilasciato alcun documento ufficiale contro il quale eventualmente appellarsi. Alcuni di questi stranieri – tra i quali anche minori, persone in stato di vulnerabilità, aventi diritto ad asilo, cioè soggetti di cui la Svizzera avrebbe dovuto farsi carico ai sensi delle regole internazionali – sono stati fatti passare in territorio italiano durante la notte, quando gli uffici preposti alle identificazioni sono chiusi. Avevano suscitato clamore le iniziative francesi a Bardonecchia, Claviere e Ventimiglia, o i charter provenienti dalla Germania,
invece le vicende ai confini svizzeri sono passate quasi sotto silenzio. La questione era già stata inquadrata dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) qualche anno fa: perché quanto accade alla frontiera elvetica non è una novità.

L’Accordo bilaterale e il Regolamento Dublino III

Innanzitutto, le autorità svizzere rimandano gli stranieri in Italia in attuazione dell’Accordo bilaterale italo-svizzero sulla riammissione delle persone in situazione irregolare del 1998: in base a tale accordo, potrebbero essere oggetto di tale trattamento solo coloro che non intendono chiedere asilo in Svizzera. Ma perché tale situazione possa essere accertata, i migranti dovrebbero almeno essere messi in condizione di sapere quali sono i propri diritti, al fine di decidere consapevolmente dove e come esercitarli. Tuttavia, nel caso concreto, pare che i migranti non ricevano sempre indicazioni e orientamento adeguati né nel territorio italiano, attraverso il quale per lo più entrano in Svizzera, né in quello elvetico.

Eppure, il Regolamento Dublino III (art. 4) prevede che i richiedenti protezione internazionale siano destinatari di informazioni
– per iscritto e in una lingua che essi comprendono, tra le altre cose – sulle modalità per presentare domanda di protezione internazionale, sui criteri per determinare lo Stato competente all’esame della domanda stessa e sulla possibilità di chiedere la relocation (trasferimento di persone che hanno bisogno di protezione internazionale, da uno Stato membro dell’UE ad un altro Stato membro, in base a una serie di motivazioni). E dovrebbero avere un interprete e assistenza per le procedure inerenti alla richiesta di protezione. La carenza di informazioni impedisce ai migranti di accedere alla procedura per la domanda di protezione internazionale, in violazione di un’altra norma del Regolamento Dublino III (art. 3), e quindi di esercitare il diritto ad essere ricongiunti ai familiari risiedenti in altri Stati europei, in violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 8 CEDU).

Le norme violate nella vicenda in questione sono anche altre: da quelle sulla protezione dei minori stranieri non accompagnati a quelle sul diritto al ricorso dinanzi ad autorità giurisdizionali in caso di inosservanza delle regole applicabili. Ma, secondo quanto risulta ad ASGI, a determinare la situazione creatasi alla frontiera con la Svizzera concorre anche altro. Infatti gli stranieri che si trovano sul territorio italiano si rendono conto dei tempi lunghi che in Italia sono necessari per le procedure necessarie al riconoscimento dei propri diritti e preferiscono attraversare irregolarmente le frontiere per presentare domanda di protezione internazionale in altri Paesi.

Il presidio congiunto italo-svizzero

La burocrazia tende sempre ad essere aggirata – e non solo dagli stranieri – come è noto. La situazione descritta potrebbe però trovare soluzione a breve. In forza di un accordo tra Italia e Svizzera, a partire dal prossimo 13 marzo pattuglie miste italo-elvetiche affronteranno il traffico irregolare di migranti nella fascia di confine e verificheranno la gestione ingressi ed espulsioni. Quindi presidieranno congiuntamente la frontiera per evitare che si verifichino episodi come quelli descritti in violazione delle regole in tema di immigrazione.

La collaborazione tra i Paesi coinvolti resta l’unico mezzo che consente di lavorare per il bene di tutti. La strada da percorrere è, dunque, quella del rafforzamento degli attuali strumenti di cooperazione internazionale ed interregionale anche in materia di controllo dei confini: l’adesione al Global Compact for Migrationavrebbe favorito il percorso. Peccato che motivi di scenografia politica abbiano prevalso ancora una volta sul buon senso.