E allora il Pd? Questa domanda è diventata un refrain, un tormentone, fonte di amarezza e talvolta di irritazione per i militanti e simpatizzanti del Partito democratico. Un interrogativo sarcastico e polemico per quanti hanno rimproverato al centrosinistra di non aver saputo intercettare la paura e il disagio che hanno portato al governo la coalizione giallo-verde. È da questa domanda che è partito un breve ciclo di interviste di NuoveRadici.World ai candidati che si contendono la segreteria del partito.

Alla domanda fatta al suo “competitor” Roberto Giachetti, e cioè perché il Pd non sia stato capace di costruire una narrazione alternativa a quella leghista sull’immigrazione, lui ha ribadito che il modello valido è quello applicato da Minniti per coniugare accoglienza e sicurezza.  Lei cosa ne pensa?

Ho dedicato dodici pagine di approfondimento della mozione al tema della piena cittadinanza che è la prospettiva giusta con cui guardare la varietà e la complessità delle domande che ci pone il fenomeno migratorio. Uscendo dalla parzialità che ha caratterizzato questi anni e uscendo definitivamente da una lettura distorsiva dell’immigrazione come un fenomeno emergenziale che è stata utile solo alla narrazione leghista dell’invasione, della paura, del nemico.

Non vi è nessuna emergenza in atto ma una realtà strutturale e assai composita, comune a tutti i grandi Paesi, che va affrontata con programmazione e politiche profonde che sappiano andare oltre la contingenza. Programmazione e politiche capaci di una narrazione che guarda oltre la sola accoglienza. La prospettiva di un grande Paese come l’Italia non può essere confinata nel vitto e alloggio per chi arriva dal mare. Vi è un obiettivo più ambizioso di reale integrazione e possibilità per chi qui ha scelto il suo futuro. Un obiettivo che sappia mettere al centro dell’agenda politica italiana ed europea anche e soprattutto “l’altra immigrazione”, quella che da diverse generazioni si è consolidata nel nostro Paese, dando un contributo di cultura, lavoro, socialità, pluralità di cui nel mondo globalizzato ogni Paese ha bisogno per darsi opportunità.

E come vorrebbe valorizzare “l’altra immigrazione”?

Quel mosaico multiculturale va espresso e rappresentato, non tanto e non solo nella sua specificità, nella curiosità del “diverso”, ma come parte integrante e dinamica della nuova Italia. Accoglienza e sicurezza sono necessarie ma sono un’ambizione insufficiente per i democratici. Cittadinanza e benessere devono essere le sfide complesse da vincere a cui è chiamato il nostro Paese, nessuno escluso. Per costruire una narrazione alternativa, che già esiste e si esprime nella quotidianità delle nostre città, serve avere questa ambizione più grande e molta radicalità. Non ci può bastare attenuare il razzismo della narrazione altrui. Per farlo bisogna viverla l’immigrazione, non solo gestirla.

Infatti non parrebbe difficile con 5 milioni e mezzo di stranieri, oltre 1 milione di nuovi italiani che stanno emergendo ovunque, non solo a Sanremo.

Dobbiamo abbandonare ogni timidezza. C’è un altra Italia rispetto a quella che viene rappresentata con il volto della paura e del rancore, un’Italia larga e maggioritaria, piena di bellezze e coraggio, anche nelle situazioni più complesse, che merita di essere raccontata e soprattutto rappresentata. Questo vale anche per i nuovi italiani. Bisogna avere il coraggio di andare “in direzione ostinata e contraria” rispetto ad una narrazione razzista, che alimenta paure e disinformazione, che però non è solo nelle parole propagandistiche delle destre al governo ma si è radicata in modo diffuso e profondo nel Paese. Un racconto che alimenta una politica difensiva e conservatrice che nei fatti della vita reale si dimostra illusoria e inefficace.

Se serve un cantante milanese di nome Mamhood per aprire un focus sulle seconde generazioni e su un patrimonio multiculturale che fa la fortuna (si pensi a Londra) delle città più dinamiche e competitive al mondo, vuol dire che siamo in ritardo, vuol dire che la politica ha mancato di rappresentare con coraggio tutto questo, di promuoverlo come un’opportunità e non come un rischio.

È allo stesso tempo necessario però stare in mezzo alle contraddizioni, alle tensioni, ai cambiamenti di abitudini che l’incontro fra culture produce, senza immaginare che sia un processo automaticamente di successo e di comune comprensione, senza il vizio del (pre)giudizio verso chi fa più fatica a comprendere, ad accettare a vivere il cambiamento, spesso fra i più fragili ed esposti da un punto di vista economico e sociale. Il Pd che ho in mente deve essere lì, sia fra quelle contraddizioni, sia fra le tantissime storie virtuose di vita comune di questa nuova Italia che già esiste.


Non pensa che il dibattito sull’immigrazione sia eccessivamente polarizzato e prigioniero di una narrazione sfuocata? 

Sì, penso che il dibattito sull’immigrazione sia parziale, spesso disinformato, polarizzato fra tifoserie che tendono a guardare al fenomeno migratorio con le categorie speculari, quanto inutili, del “tutto bello” o del “tutto brutto”, e che sia, sì, conseguentemente ingabbiato in una narrazione sfuocata.I populisti lucrano sulla narrazione sfuocata perché a loro non interessa risolvere i problemi ma solo ricercare colpevoli. Sta a noi accendere la luce sui problemi veri, senza vie di fuga per gli irresponsabili, anche quelli chiamati a responsabilità di governo. Sta a noi andare oltre, entrare nella vita reale per stimolare una discussione informata e alzare l’asticella del dibattito pubblico che invece viene ogni giorno di più abbassata in un confronto volgare, violento e inutile.

Nella sua mozione #fiancoafianco ho trovato questo passaggio: «Per noi, chi nasce e studia in Italia è italiano. Nel nostro Paese, per lavorare, si deve poter entrare andando in ambasciata, non rischiando la vita in mare. E chi arriva sulla base di flussi regolati deve accettare il patto di cittadinanza e inserirsi nella nostra comunità». Può spiegarci la sua proposta?

Partiamo da un’evidenza incontrovertibile. La legge Bossi-Fini, di fatto sospendendo e rendendo a dir poco complessi i flussi regolari, ha moltiplicato e favorito i flussi irregolari e pericolosi, quelli che producono ogni anno un bollettino di guerra di morti nel Mediterraneo e di traumi permanenti per chi pur arriva. Abolire la legge Bossi-Fini e il decreto Salvini, che di fatto precarizza ancor di più i percorsi migratori contribuendo, quasi in una selezione naturale, al loro insuccesso, sono priorità politiche dei democratici. Perché la politica della paura produce solo irregolarità, povertà, sofferenza sociale che non sono mai presupposti di sicurezza e benessere delle comunità. Ma non basta abolire, bisogna costruire. Bisogna combattere l’irregolarità con la regolarità.Con percorsi che accompagnino arrivi di persone con competenze linguistiche, professionali e sociali che favoriscano un’integrazione di successo (questo ovviamente al netto dei percorsi umanitari e di asilo per chi fugge da guerre ed ogni tipo di persecuzione). Per farlo, dopo oltre vent’anni dalla legge Turco-Napolitano è necessario un nuovo testo unico sull’immigrazione che, superando la frammentazione normativa, affronti il diritto d’asilo, affronti in modo molto più forte il tema dell’integrazione e dei suoi strumenti, e affronti in modo risoluto il tema della cittadinanza, rendendo legge un fatto evidente a chiunque entri in una scuola italiana: chi nasce e studia in Italia è italiano, a prescindere dal luogo di nascita dei suoi genitori. Più in generale è necessario uscire da un sistema che ha prodotto la corrispondenza immigrazione = sbarchi/accoglienza verso un sistema dell’inclusione e della piena cittadinanza, capace di fornire risposte anche ai tanti giovani di seconda generazione, ascoltando, di più e meglio, bisogni e aspettative. Per farlo è necessario investire sulle città, sulla loro capacità generativa di comunità e sul loro essere palestre di cittadinanza. E infine forse la cosa più importante di tutte: la scuola. Garantire risorse straordinarie alla scuola, il luogo dove ogni giorno avviene l’integrazione e la costruzione di futuro di tutti i cittadini italiani di domani.

La mia impressione è che, pur avendo alcuni giovani di seconda generazione che emergono nel Pd, si voglia rimuovere un po’ la questione. E così ci si limita a criticare ciò cha fa Salvini invece di fare conti con la portata dei cambiamenti che un partito progressista dovrebbe intercettare.

La presenza di giovani di seconda generazione davvero molto in gamba nel Pd è per noi uno straordinario patrimonio di intelligenze, di storie, di punti di vista originali che possono aiutarci a costruire un’agenda politica nuova sull’immigrazione. Un’agenda politica coraggiosa, radicale, alternativa e appassionante che ci eviti il rischio di limitarci a fare i commentatori dell’agenda politica di Salvini. Non foss’altro perché quella agenda politica razzista, rancorosa e illusoria, si commenta da sola.
Il nostro congresso deve servire a questo: non tanto e solo a decidere chi fa il nuovo segretario del Pd, non certo a discutere del passato con la testa rivolta indietro, ma a mobilitare idee, relazioni, traiettorie di opposizione capaci di offrire un’alternativa al degrado culturale e politico che è sotto gli occhi di tutti.