Dudù Kouaté, 55 anni, senegalese, da 30 in Italia, musicista, percussionista, guarda il mondo ad occhi aperti: «Alla fine i bianchi non sono così bianchi come credono. Hanno anche loro delle sfumature. Il mio futuro continuo a vederlo qui anche se la situazione non è piacevole. Io sono ottimista. Peccato solo non avere mai chiesto la cittadinanza. Adesso andare in tournée all’estero mi crea qualche problema. Ma rimedierò». Inevitabile per uno come lui che salta dall’Accademia di Brera a Milano a quella dei Carracci di Bergamo come mediatore interculturale fino ai palchi di mezzo mondo dove suona con svariati progetti musicali. In poche settimane sono usciti o stanno uscendo tre dischi suoi o ai quali ha collaborato. Dal suo album in solo Africation all’ultimo disco del Multikulti Ensemble di Cristiano Calcagnile The gift of togetherness, fino a We are on the edge, l’album dell’Art Ensemble of Chicago in uscita a fine aprile, uno dei gruppi che da 50 anni fa la storia del jazz mondiale.
Dudù Kouaté, come è finito in Italia?
«Veramente volevo andare in Gran Bretagna. A Dakar studiavo inglese. Facevo l’interprete e la guida turistica. Alla fine c’è stato un problema con i visti e ho deciso di venire in Italia dove avevo degli amici. Vai dove hai un appoggio alla fine. È stato il mio piano B. Ma non sapevo nulla dell’Italia».
Un Paese straniero di cui non conosceva nulla, nemmeno la lingua…
«Un po’ di italiano lo sapevo a dir la verità. Io sono senegalese di origini griot. Siamo i custodi della tradizione e della musica africana. Mio nonno però veniva dal Mali. Lavorava per l’amministrazione coloniale. Mio padre era funzionario di banca. Avevano girato il mondo. Erano stati anche in Italia. In giro per casa c’erano molti libri. Anche un librino turistico dove ho imparato a dire buongiorno e buonasera in italiano, le parole più elementari. Parlavo già francese e inglese».
Era già un musicista in Senegal?
«Suonavo la chitarra. Era solo una passione. Non pensavo di diventare un musicista».
Questo lo ha scoperto in Italia?
«Solo dopo. Il primo Paese dove sono stato è il Belgio. Poi sono andato in Francia e in Germania. Alla fine sono arrivato in Sicilia. Suonavo con i Konsertu, un gruppo italiano etno-folk, etno-rock… Stare sul palco con loro è stata la svolta. Ho capito che il mio mondo era quello».
Un senegalese in Italia alla fine degli anni Ottanta. Non sarà stato facile…
«È stato difficile. Ma era diverso. Per arrivare alla situazione di oggi ci sono stati diversi passaggi. Allora non si chiamava nemmeno razzismo. Era ignoranza. La paura dell’altro che non si conosceva ancora. Oggi la situazione è peggiorata. Non vi riconosco più».
Lei non ha la cittadinanza italiana.
«Non l’ho mai chiesta. Non ne avevo mai sentito il bisogno. Ma sento di far parte di una comunità visto che vivo in Italia da 30 anni. In Sicilia sono stato clandestino per un anno e mezzo. Quando mi sono trasferito a Bergamo, all’inizio di giorno facevo il “vu cumprà” e la sera suonavo. Ho avuto il permesso di soggiorno con la prima sanatoria Martelli agli inizi degli anni Novanta. Ma non ho mai pensato a chiedere la cittadinanza e la cosa adesso mi sta dando qualche problema. Dovevo andare in Giappone in tournée ma non mi hanno dato il visto perché non ho la cittadinanza. Rappresento l’Italia a un festival a Capo Verde dove andrò tra qualche giorno ma non mi hanno pagato il biglietto aereo perché non ho la cittadinanza. Adesso ovviamente mi sto dando da fare per ottenerla».
Oltre a suonare insegna musica, giusto?
«Sì in varie scuole della bergamasca. Insegno percussioni djembe. Insegnare musica per me vuol dire trasmettere anche la mia cultura. Avevo smesso per quattro anni ma ho ricominciato. Mi era fermato perché mi ero accorto che per molti la mia musica era solo picchiare sui tamburi. Non basta. Non c’è solo quello».
Musica africana per allievi italiani…
«Non sono contrario al mescolamento delle culture. Al mio Paese facevo l’interprete e la guida turistica. Raccontavo il Senegal ai turisti. Qui oltre che il musicista faccio anche il mediatore interculturale. Faccio visite guidate per italiani e stranieri alla Pinacoteca di Brera di Milano e all’Accademia dei Carracci di Bergamo. Trovo il modo di raccontare di me e dell’Africa. È come se fossi uno dei primi esploratori davanti a importanti scoperte».
Quanto sono importanti le sue radici? Molti giovani oggi, immigrati di seconda generazione o nuovi italiani, sembra che facciano di tutto per nasconderle, pensando di essere accettati meglio…
«È una cosa sbagliata. Alla fine dai una visione sbagliata di te. Invece devi sapere chi sei. La mia cultura ho saputo riconoscerla ed apprezzarla stando qui. Lontano dal mio Paese l’unica cosa che posso avere è la mia identità. Nonostante l’Italia sia un Paese all’interno del sistema occidentale, ha visto la propria cultura cambiare. Come dico spesso, il bianco non è così bianco come pensa. Ha anche le sue sfumature. Ho imparato a conoscere meglio l’Africa stando qui. Ci sono più libri, ci si può documentare meglio. Ovunque mi giro vedo l’Africa».
Lei ci torna in Africa?
«L’ultima volta sono stato in Senegal un anno fa. Anche se i miei genitori non ci sono più ho i miei fratelli e le mie sorelle. Alla fine quando non so dove andare ritorno in Africa».
Come si fa ad esprimere le proprie radici nella musica?
«È possibile solo se si è sinceri. La musica che suono non ha titoli. Quando sono sul palco cerco di essere me stesso. Ascoltare e interagire sono le cose fondamentali. Se sai chi sei, puoi raccontarlo con la musica. Quando vado tra i bambini a fare i laboratori musicali cerco di inculcargli tre concetti fondamentali: osservare, ascoltare, aspettare. Nella musica anche le pause sono importanti».
Definire solo musica i suoi progetti artistici sembra riduttivo. Odwalla è un gruppo italiano di sole percussioni dove pure la danza ha un suo peso.
«Movimento e suono vanno di pari passo anche con il canto. Suono con loro oramai da 15 anni. Massimo Barbiero scrive le musiche e noi le interpretiamo. Che non vuol dire le eseguiamo e basta. È come se ci fosse uno scheletro musicale su cui abbiamo totale libertà di espressione e di improvvisazione. È una cosa che succede anche con il Multikulti Ensemble di Cristiano Calcagnile. Facciamo musica che è spirito libero. Da poco è uscito Africation, un mio album solo. È una riflessione sulla mia vita e tutto quello che mi riguarda».
La musica da sola non basta per lei. Inevitabile che finisse a suonare con l’Art Ensemble of Chicago, un monumento della storia del jazz radicale degli ultimi cinquant’anni. Costumi, suoni non tradizionali, c’è tutto lì dentro…
«Io non mi sento solo un musicista. L’Art Ensemble of Chicago ha creato anche un modo di stare insieme, di fare la storia, che dura fino ad oggi. Un giorno ho chiesto al leader e uno dei fondatori del gruppo Roscoe Mitchell, se quando salivano sul palco avessero già idea di quello che stessero facendo o improvvisassero lì per lì. Roscoe mi ha risposto che avevano le idee chiare. Che si portavano dietro la storia e le discriminazioni, la schiavitù e il razzismo. Suonavano sapendo di essere neri in un Paese che amavano e che non li amava. A Parigi dove sono stati a lungo non li volevano. Erano considerati un gruppo sovversivo e violento. La musica e la cultura fanno più paura di un’arma. Il jazz è nato dalla sofferenza. Quando picchi su un tamburo e soffi in un sax dai voce alla tua sofferenza».
Come lo vede il suo futuro? Dove lo immagina?
«Io sono molto ottimista. Anche in questo Paese. So che la situazione oggi non è piacevole, ma non è un ostacolo insormontabile. Niente mi impedisce di andare avanti. Non mi fa paura Matteo Salvini, lui si muove secondo calcoli politici. Dovrebbe farci più paura la gente che lo segue».