Per questa pausa estiva, abbiamo selezionato le storie più belle dall’archivio di NuoveRadici, che ripubblicheremo nelle prossime settimane. Il reportage sui migranti scesi dalla Diciotti e ospitati da Casa Suraya è stato pubblicato nel settembre 2018. Cosa è cambiato da allora? I porti sono ancora chiusi alle Ong e oggi ci sono 107 migranti in ostaggio da 19 giorni.

La mano di Tihras racconta tutto: sopra vi ha scritto col pennarello i nomi dei suoi ultimi compagni di viaggio. Un viaggio che sembra finito, ma probabilmente proseguirà ancora. Per ora si ferma qui, a Casa Suraya, a Milano. Tihras è una delle giovani donne eritree arrivate in Italia con la nave Diciotti. Chiediamo del suo viaggio e del perché ha lasciato l’Eritrea: la motivazione è la stessa per tutti gli eritrei, e cioè di essere fuggiti al servizio di leva permanente.

Sulla “pace” firmata tra Etiopia ed Eritrea lei è lapidaria: «È una pace tra loro, ma non è una pace per noi». Tihras è giovanissima e si muove veloce, non sta mai ferma. Parla la lingua araba che ha imparato in Sudan e in Libia, appresa per sopravvivere. Il suo viaggio è durato anni, perché ogni volta bisogna raccogliere di nuovo il denaro che ti viene rubato. E nel giardino di Casa Suraya del suo anno e nove mesi in Libia ci ha detto solo poche parole che servono a comprendere la tragedia sua e dei suoi compagni di viaggio «Non voglio parlarne, se ti ricordi della Libia, impazzisci». Un anno e nove mesi in un capannone, un piatto di cibo ogni dieci persone e ogni giorno passato a pensare che sarebbe morta.

La incontriamo insieme a Samson. Lui ha ventotto anni, il suo viaggio invece dura da cinque anni. Anche lui ha dovuto raccogliere per ben tre volte il denaro per proseguire. Prima a Khartum, poi a Juba dove ha lavorato per due anni, uomo delle pulizie e autista, e infine in Libia, dove è stato derubato per la terza volta. «Per un anno e mezzo, in Libia, non ho mai visto la luce del sole», ricorda. Samson è meno spigliato di Tihras e ha il volto segnato, gli occhi più spenti.

Sono otto gli eritrei della nave Diciotti arrivati a Milano: quattro donne e quattro uomini. Hassan El Aouni è il mediatore culturale che è andato a prenderli in auto a Rocca di Papa. «Oggi stanno meglio, sono più presenti», osserva. E ci racconta anche lui come l’esperienza libica abbia segnato gli eritrei. Trattati come schiavi e le donne abusate in modo sistematico, ricorda di un’altra ospite eritrea salvata dai miliziani di un trafficante: nemmeno loro sopportavano più le sevizie che a cui lui la sottoponeva ogni giorno. Pur di mettere fine alla sua sofferenza l’hanno aiutata a scappare e salire su un gommone.

Casa Suraya, gestita dalla Cooperativa Farsi Prossimo, è un centro di accoglienza straordinaria in cui vengono ospitate soprattutto famiglie e madri sole con bambini. Da qui, sono passate la maggior parte delle famiglie siriane tra il 2014 e il 2015.

Francesco Sdraiati è il coordinatore del centro. E ci spiega che gli ultimi eritrei li hanno ospitati nel settembre di un anno fa. Scappano dalla dittatura e sono come un fiume che segue un percorso ben preciso perché la loro meta finale è quasi sempre il Nord Europa e l’Inghilterra. Infatti Tihras ha una zia in Svezia che vorrebbe raggiungere. Il coordinatore ci spiega come sono cambiati i flussi migratori. In questo momento, a Casa Suraya, vi sono circa centocinquanta ospiti. I Paesi da cui arrivano sono Nigeria, Somalia, Camerun, Costa d’Avorio e per la prima volta ospitano una famiglia dalla Cecenia, oltre a una madre con un bambino dall’Angola e una coppia di armeni che hanno sessant’anni.

Sono decisamente meno le persone che approdano nel vecchio convento, ma sicuramente più disgraziate, più vulnerabili, ci spiegano a Casa Suraya. All’ingresso del centro incontriamo anche uno dei due libici ospiti: entrambi disabili, uno perché malato e uno per via di uno scontro a fuoco. Nel team di Casa Suraya ci sono medici, psicologi, assistenti sociali, educatori e anche uno psichiatra.

Tra gli ospiti, c’è anche un ragazzo del Senegal: vive su una sedia a rotelle, non ha l’uso delle braccia ma appena arrivato ha chiesto un iPad e delle tempere. Francesco è riuscito ad accontentarlo, poi ha scoperto che Abdoulaye Seydi è un artista senegalese, famoso su YouTube. «Eravamo in tanti, chiusi dentro nel capannone in Libia. Ora siamo qua, salvi», ci hanno detto Tihras e Samson.

Parole che raccontano l’essenza della loro odissea e il senso del sorriso sul volto di Tihras, che scatta via veloce dopo l’intervista. Con i nomi dei suoi compagni di viaggio sulla mano, da non dimenticare. Se resteranno, potranno andare in un appartamento di qualche parrocchia e seguire un percorso di inserimento secondo un nuovo approccio di accoglienza diffusa, per favorire più facilmente il loro inserimento. Sempre che non scelgano di andarsene, come ha già fatto un gruppo consistente dei migranti arrivati con loro. Un caso, quello della nave Diciotti, che è stato tanto rumore per nulla.

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