Amin Wahidi è nato a Kabul in Afghanistan 36 anni fa. Nel 2007 durante le riprese del suo primo film Le chiavi per il Paradiso sugli attentati suicidi, il suo piccolo set è stato attaccato a Hudkhel dai fondamentalisti pashtun. Alla fine ha preferito lasciare il Paese e chiedere asilo politico in Italia. Adesso vive a Milano dove continua a fare film e insieme ad alcuni amici a luglio di quest’anno ha aperto il primo ristorante afghano in città, dove lo abbiamo incontrato. Racconta Amin Wahidi: «Si chiama Samarkand e offriamo cibo per l’anima non solo per lo stomaco. Il menù ha le suggestioni dei cibi della via della seta ma qui si viene anche per dialogare e per conoscersi. In fondo alla sala tengo la bandiera blu bianca e gialla dell’Hazaristan. Io e i miei soci siamo tutti hazara. Un tempo eravamo l’etnia più grande dell’Afghanistan, oggi dopo secoli di persecuzioni siamo solo il 20% della popolazione attuale del Paese, anche se nei documenti ufficiali il governo afghano dice che siamo solo il 9% per limitare i nostri diritti e le risorse che ci spettano. Tra il 1880 e il 1893 il re pashtun Abdul Rahman ha sterminato il 62% del nostro popolo. Un’altra pulizia etnica è stata compiuta dai talebani nel 2001 poco prima della distruzione dei Buddha di Bamiyan. Sono cose che non sa nessuno perché noi non siamo minacciosi.
Alla fine contiamo poco nel gran gioco dei poteri in Afghanistan, perché noi siamo pacifici, non abbiamo armi pesanti come i terroristi talebani per uccidere e minacciare gli interessi internazionali. Le nostre armi sono le nostre penne per scrivere, libri per raccontare, pennelli per dipingere e cineprese per girare. Questo è il nostro potere, ma non funziona in un Paese come l’Afghanistan, per cui ci stanno uccidendo in migliaia sotto gli occhi della comunità internazionale. Per uscire dall’incubo di un altro genocidio, tanti di noi continuano a protestare e sognare l’indipendenza dell’Hazaristan. Ma siamo soli e non abbiamo aiuti dalla comunità internazionale. La maggior parte degli Hazara sono sciti e musulmani anche se io non pratico la religione». Amin Wahidi viveva con i genitori e il fratello a Dashte Barchi, una zona hazara a ovest di Kabul. Nel 1993 durante la guerra in Afghanistan tutta la famiglia si è rifugiata in Pakistan a Quetta, una zona a prevalenza hazara. Dove sono rimasti fino al 2002. A Quetta ha studiato al liceo. «Quando siamo tornati in Afghanistan dopo l’iscrizione all’università ho capito che volevo fare il cinema. L’idea de Le chiavi per il Paradiso è nata perché volevo raccontare come gli attentatori suicidi che non sanno niente del mondo vengono indottrinati a pensare che immolandosi riusciranno ad arrivare in Paradiso. Ma la cosa non piaceva alla popolazione di quelle zone. Non volevano che si parlasse di loro. I talebani sono poveri, analfabeti e manipolati. Della vita conoscono solo la guerra e la violenza. Quando ci hanno attaccato alcuni della mia troupe sono rimasti feriti. Alla fine quel film non l’ho più fatto ma non ho mai smesso di pensarci e prima o poi lo farò». Subito dopo quelle minacce Amin Wahidi torna a casa e per mesi smette di lavorare. «Avevo già smesso con ATN, Ariana Television Network, ma collaboravo ancora con una radio come giornalista. Il resto della mia famiglia intanto si era rifugiato nella valle di Bamiyan, dove è rimasto per un breve periodo. Il produttore americano che avrebbe finanziato il mio film e un giornalista italocanadese mi hanno aiutato a venire in Italia con un visto. Un anno dopo ho ottenuto lo status di rifugiato politico. I primi tempi in Italia sono stati molto duri. I primi sei mesi ho vissuto in un centro di accoglienza in viale Fulvio Testi a Milano. Poi in altri centri. La prima casa mia l’ho avuta tre anni dopo. Ci sono stati momenti in cui pensavo di non farcela. La nostra comunità non è molto diffusa in Italia. Siamo appena in cinquemila. I miei genitori avevano ottenuto asilo il Svezia». Anche se è lontano da Kabul le radici famigliari di Amin Wahidi sono rimaste nel suo Paese: «In Afghanistan è rimasto solo mio fratello Mosheen che ha dieci anni meno di me. È un artista di fama internazionale ormai. Si fa chiamare Taasha. La polizia afghana l’ha preso due volte ma l’ha sempre rilasciato e lui vuole rimanere a Kabul. Ha esposto i suoi quadri a Parigi, Lugano, Kassel, Amburgo, Praga, Milano e alla Biennale di Venezia nel 2015. Alcuni dei suoi quadri sono appesi qui a Samarkand». Straniero, senza famiglia, solo, senza una comunità solida alle spalle, Amin Wahidi all’inizio del suo periodo italiano ha dovuto stringere i denti: «Trovare un lavoro anche se part time in una grande libreria di Milano mi ha aiutato molto a crescere e a vedere il mondo diversamente. Di giorno lavoravo e la sera studiavo. Nel 2009 ho preso il diploma di Cortometraggio alla Scuola civica Luchino Visconti del Comune di Milano. Nel 2014 sempre lì ho preso un altro diploma e ho continuato a fare film. Nel 2014 ho ricevuto il Premio Città di Venezia per il cortometraggio L’ospite che racconta la storia di una notte in un ostello di un richiedente asilo afghano. Poi ho girato La cena persiana, una storia di integrazione a Milano. Nel 2017 ho rivinto il Premio Città di Venezia con il documentario Behind Venice Luxury. Adesso sto montando un documentario su una cantautrice di strada milanese. Alla fine venire in Italia è stata un po’ la mia fortuna. Anche se è stato casuale venire qui. Potevo finire in qualsiasi altro Paese. L’importante era lasciare l’Afghanistan». L’Italia gli ha offerto più di una opportunità, continua a lavorare nel cinema come gli è sempre piaciuto, il ristorante Samarkand è una nuova sfida, ma nel suo futuro c’è un ritorno al passato, alla terra da dove è venuto più di dieci anni fa: «Le mie radici sono lì. L’anno scorso sono tornato a Kabul per due settimane. Ho trovato un Paese molto povero e con molta corruzione. Adesso ho la cittadinanza e il passaporto italiano ma non vedo un orizzonte molto chiaro qui in Italia. Seguo la politica. Ci sono cose che non riesco a capire. Anche se non mi è mai capitato di subire episodi di razzismo. Al massimo mi prendono per sudamericano e mi parlano spagnolo e non vogliono credere che io sia afghano. Il razzismo cresce dove si tengono le finestre chiuse e dove non si dialoga con gli altri. Come i talebani che non sanno nulla della vita. Per questo vorrei un giorno tornare a fare quel film che mi hanno impedito di fare. Oggi è ancora più necessario. E perciò abbiamo aperto questo ristorante in un angolo di Milano, che vuole anche essere una finestra aperta al dialogo».