Cristina Brambilla, classe 1964, nata a Sesto San Giovanni che è quasi Milano. A nove anni voleva diventare archeologa, a dodici spia, a quattordici pittrice, a venti ha iniziato a lavorare come copywriter per la pubblicità. Alla fine è diventata scrittrice, soprattutto per ragazzi, scavando e spiando nell’animo delle nuove generazioni. Tra i suoi libri più noti La chiave dell’alchimista e Il drago in discarica, entrambi pubblicati da Mondadori. Ultima fatica Ragazzi dell’estate, pubblicato in questi giorni da Rizzoli, un romanzo di formazione ambientato in Thailandia.
Cristina Brambilla, gli sbarchi di migranti negli ultimi tempi si sono ridotti di molto. Ma c’è chi continua a parlare di “invasione”. Come si risponde alla paura?
«La paura forse non cerca risposte, vuole solo strillare ed essere ascoltata. La mia risposta quindi sarebbe: ascoltiamo quello che gli spaventati hanno da dire e vediamo se riusciamo a rassicurarli».
Ma se chi è preposto a mettere in campo le risorse per creare occasioni di ascolto e confronto si preoccupa invece di ingigantire i problemi perché cosi prende più voti, allora mi sento scoraggiata. Per fortuna non dovrò preoccuparmene io, che sono già ben oltre la metà della mia vita: ci penseranno i ragazzi. Che sollievo! Loro già vivono in una società cambiata. Perché è già cambiata, solo gli spaventatori di professione fingono di non vederlo. Qualche giorno fa sono passata in mezzo al corteo degli studenti che protestavano contro i cambiamenti climatici. Non c’erano divisioni: solo passioni. E se devo dirla tutta, al momento mi sembra che il loro principale timore sia di non avere più un pianeta, non di averne uno in cui non riescono a difendere dei confini
Lei incontra molti giovani, studenti e lettori. Sui social c’è una recrudescenza di insulti razzisti, proprio tra i più giovani. Colpa della scuola? Delle famiglie?
«Io penso che sui social ci sia una recrudescenza di insulti di ogni genere, fra cui certo anche quelli razzisti. Il web è il luogo dove i ragazzi trascorrono la maggior parte del tempo, in perfetta solitudine, esposti ad ogni genere di falsità, adescamento, offesa. Il fenomeno del cyberbullismo ha proporzioni quelle sì, spaventose. La scuola e la famiglia possono cercare di educare al rispetto, se ci credono e se ci riescono. E hanno il dovere di vigilare su quello che i loro ragazzi leggono e scrivono online. Ma non possono impedirgli di pensare che sia furbo insultare qualcuno solo perché è nato altrove».
Tra gli stranieri più giovani, immigrati di seconda generazione e nuovi italiani, c’è la tendenza a nascondere le proprie origini per farsi accettare meglio. Non è rischiosa questa omologazione?
«Sentirsi diversi è faticoso, a volte insopportabile. Specie per i ragazzi nel momento in cui lasciano la famiglia per cercarsi un proprio branco. E se un’intera società ti colpevolizza per qualcosa che non puoi cambiare, trovo comprensibile cercare di camuffarsi. I ragazzi sono terribilmente esposti a questa pressione, e per alcuni di loro il mimetismo è questione di sopravvivenza».
Musica e letteratura sono strumenti molto diffusi tra le seconde generazioni. Perché? C’è un bisogno di raccontarsi?
«Trovo necessario che i ragazzi abbiamo dei modelli in cui potersi specchiare e riconoscere. E l’ambiente dell’arte e della cultura è da sempre più aperto di altri alla diversità. Senza innesti, l’arte e la cultura semplicemente avvizziscono e muoiono. Questa fantasia di mortificazione intellettuale, di nazionalismo culturale è nata morta. Persino sotto le dittature più feroci si traducevano, di nascosto, i romanzi proibiti».
Quando accade, da Ghali a Mahmoud, a Dikele Distefano, i media se ne impossessano. Voglia di esotismo? Anche i nuovi italiani campioni dello sport piacciono. Alla fine gli stranieri vanno bene solo se ci fanno divertire e stanno al loro posto? Siamo tornati ai tempi della capanna dello zio Tom?
«Sarà, ma io vedo ostilità anche in quei settori. Non è stato scritto, proprio in uno striscione da stadio “non esistono italiani neri”? E non è stato contestato il vincitore di Sanremo perché non era abbastanza italiano? Mi piacerebbe che gli interessati se ne fregassero, per dirla schietta, che si sentissero fieri del proprio ruolo di apripista, di persone la cui notorietà servirà a creare quella familiarità necessaria a creare fiducia. La strada per la pace sociale passa dalla conoscenza reciproca, sbaglio? E se uno viene riconosciuto da mille non avremo accorciato un po’ le distanze?».
Nei suoi romanzi si parla anche di diversità. A cosa si ispira?
«Io sono cresciuta nel mito della salad bowl. Si può immaginare la mia delusione quando, arrivata un po’ vicino a quel modello, mi ritrovo degli opportunisti camuffati da bifolchi che lo deprezzano. Lo sa quando ho sentito pronunciare per la prima volta la parola “profughi”? Da mio padre, anticomunista e tutto tranne che buonista (qualsiasi cosa significhi) che mi raccontava la storia dei Brambilla. Profughi, per l’appunto, richiedenti asilo al Ducato di Milano. Sarà per quello che racconto di persone che si sentono fuori posto e che un posto lo cercano con ogni mezzo?».
Oggi siamo un Paese razzista? O xenofobo? Lo siamo sempre stato?
«Non abbiamo mai smesso di essere antisemiti, omofobi, sessisti. Adesso ci scopriamo pure pauperisti, oltre che razzisti. Perché in fondo penso che dia più fastidio pensare a Prato che parla cinese piuttosto che al Chianti che parla inglese. Quello che ci disturba, forse, è che tutti questi poveri vengano qui a ricordarci la storia di fame e miseria da cui proveniamo».
L’immagine del piccolo Alan annegato su una spiaggia turca ha fatto il giro dei media del mondo. È diventata parte dello spettacolo?
«Io non riesco ad essere così cinica. Penso invece che alcune immagini, alcune storie, riescano ad attraversare persino la nostra pellaccia. Anche chi fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, anche chi si pensa abbandonato dalla politica, chi si considera vittima di una globalizzazione che rispetta più le merci delle persone non può non sentirsi sopraffatto dalla vista di un bambino morto in quel modo. Siamo pur sempre esseri umani, anche quando diciamo delle bestialità».
Secondo l’Istat ci sono 1 milione 200 nuovi italiani: sono anche chirurghi, imprenditori, ricercatori, eppure invisibili… Si fa finta di non vederli, un alibi per non occuparsene?
«Chissà, forse è un bene. Se sono invisibili, vuol dire che lavorano, studiano, escono, vivono come tutti gli altri italiani. Quelli vecchi, intendo, frutto di innumerevoli travasi. Nelle nostre vene scorre il sangue di mezzo mondo e se mi ritrovassi all’improvviso zillionaria pagherei tutti gli italiani per sottoporsi a quel test che individua il proprio retaggio genetico. Ne vedremmo delle belle».
La letteratura, il teatro, il cinema, si sono sempre occupati di migrazioni e migranti. Gli intellettuali, gli scrittori, che ruolo possono avere di questi tempi?
«Io scrivo romanzi per ragazzi. È mio dovere essere ottimista. Se non credessi nell’uomo, nel fatto che abbiamo un pollice opponibile per suonare il pianoforte e non per randellare chi non ci assomiglia, come potrei chiedere a dei minorenni di fidarsi di me? Io sento che il mio compito è scrivere storie dove chi non si sente a casa trova una casa e chi non pensa di avere un posto in questo mondo ne trova un altro. Magari migliore».