Tommy Kuti
Ci rido sopra
Crescere con la pelle nera nell’Italia di Salvini
(Rizzoli, 2019)
in libreria dal 25 giugno
Quando rappa #Afroitaliano, Tommy Kuti, nigeriano e bresciano, canta: «La prima volta che ho detto “ti amo” l’ho fatto in italiano». Ma provate a mescolare i turbamenti adolescenziali con il colore della sua pelle e capirete che il vero problema di Tommy Kuti era “limonare” con le ragazze. In questo suo primo libro, uno dei fenomeni musicali degli ultimi anni si racconta e si mette a nudo con una leggerezza che colpisce. Raccontare con ironia la sua vita prima e dopo il successo che lo ha portato ad essere il primo rapper afrodiscendente italiano a firmare con la major Universal, fa di questo libro il manifesto delle seconde generazioni. Dentro c’è tutto. Non solo la fatica di vivere in un Paese animato da troppi pregiudizi che talvolta sfociano in razzismo conclamato. Ma pure la voglia di essere riconosciuto come un rapper affermato con tanto di laurea a Cambridge, alla faccia di chi lo additava per il colore della sua pelle nel quartiere multietnico I Cinque Continenti a Castiglione dello Stiviere vicino a Mantova.
Fabio Poletti
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore Rizzoli pubblichiamo un estratto del libro.
All’età di diciannove anni ero riuscito finalmente a fidanzarmi con una ragazza italiana della mia classe. È stato lì che ho capito davvero in cosa consistesse il razzismo vigente in provincia. Avete presente quei posti dove la gente crede ancora fortemente al “mogli e buoi dei paesi tuoi”? (Tra l’altro questo detto mi ha sempre inquietato… come cazzo si può paragonare una moglie a un bue, quasi come fosse merce di scambio? Vabbè, in Padania questo e altro).
Mi fidanzai con Chiara, una ragazza di una frazione del mio comune di residenza. Se pensate che a Milano ci sia una mentalità un po’ chiusa, be’, a Brescia ce n’è forse anche di più, ma è comunque una città che in qualche modo si è abituata all’immigrazione da vent’anni. A Castiglione delle Stiviere, che alla fine è un comune di 20.000 abitanti, di razzismo ce n’era abbastanza, ma esistevano delle eccezioni. Tipo alcuni genitori dei miei compagni di scuola che erano molto pro immigrazione… Per dire, alcuni portavano pure i regali di Santa Lucia a me e agli altri ragazzi svantaggiati del quartiere dei 5 Continenti. Bene, scordatevi Brescia e Castiglione. La frazione era un altro mondo ancora.
I genitori di Chiara non erano solo convintissimi che il problema numero uno del Paese fosse l’immigrazione e che il Duce avesse fatto più bene che male all’Italia. Credevano anche a un’infinità di luoghi comuni e preconcetti sulle persone nere che, boh, neanche nell’Alabama degli anni ’30, cazzo. La madre di Chiara, veronese di origine, un giorno disse a sua figlia, ovvero alla mia fidanzata, che non avrebbe mai dovuto fare sesso con me perché aveva sentito che il ph della pelle dei neri poteva essere dannoso per le persone bianche. La cosa che mi diverte di più è che sto parlando del 2008 e, ai tempi, Lercio non esisteva ancora. Eppure c’era chi era già affascinato dalle fake news.
Il padre, invece, uno di quelli che abitano nella casa dove sono stati concepiti e sono nati, uno che non è mai andato sotto il Po perché “là ci sono i terùn”, la prima volta che mi vide arrivare a casa loro mi fece un terzo grado di quelli che manco O.J. Simpson durante il processo per l’uccisione della moglie e del suo amante.
Immaginatevi il classico caldissimo pomeriggio di agosto. Erano circa le cinque e tutta la famiglia era seduta vicino all’orto a mangiare angurie e meloni. Arrivato su quella stradina di campagna alla guida della Touareg di mio padre, presa al posto della mia Corolla per fare bella figura, potevo sentire il verso delle galline che deponevano le uova e il rumore sofferente dei maiali che grugnivano, probabilmente perché sapevano che molto presto si sarebbero trasformati in grandi salsicciotti, prosciutti e salami.
In generale percepivo un certo astio, non solo da parte di tutto il vicinato che mi osservava come se fossi un alieno venuto sulla Terra… persino il cane della famiglia trasudava leghismo! Io non so se questa cosa sia dimostrabile o se abbia una spiegazione scientifica, ma raga, giuro, in Padania anche i cani sono diffidenti verso chi ha origini non padane. Non solo gli stranieri, ma anche i terroni. Quel cane stronzissimo ha abbaiato ogni volta che mi ha visto per tutti e cinque gli anni della mia relazione con Chiara. Ogni volta. Per cinque anni! Infatti, lei doveva sempre legarlo per impedirgli di provare ad assaggiare la carne dei miei polpacci.
Comunque, quel giorno, mentre stavo per parcheggiare, il padre – che chiameremo Genoveffo (l’ultima cosa che voglio è un leghista armato e che sa dove abita la mia famiglia che viene a minacciarmi per averlo diffamato) – mi fece degli strani segnali con le mani per dirmi di avvicinarmi. La nostra prima conversazione fu più o meno la seguente:
Genoveffo: Ciao, non mi piace come hai parcheggiato quella macchina, valla
a spostare.
Io: Ok, certo. Così va bene? (mentre stavo sudando sette camicie a causa del caldo e del nervosismo)
Genoveffo: No!
Io: Così?
Genoveffo: No
Dieci manovre dopo…
Genoveffo: Ora è accettabile. Senti, dove hai trovato questa macchina?
Io: È di mio papà.
Genoveffo: E cosa fa tuo papà?
Io: Ha un’attività di import/export.
Genoveffo: Ah, fa le cose in nero?
Io: No.
Genoveffo: Ahahah, sì, come no… dài, siediti, vuoi una fetta d’anguria?
La cosa divertente è che il signor Genoveffo era assolutamente convinto di essere simpatico grazie alle battute che faceva. Ma proprio sicurissimo. Infatti, ogni volta che parlavamo, aveva sempre sul volto uno strano sorriso, stronzo e fiero allo stesso tempo. Anche se non lo diceva esplicitamente, mi sembrava sempre di potergli leggere in faccia: “Ehi, negro, purtroppo siamo nel 2008 e non ti posso sparare a vista, ma sappiamo entrambi cosa ti succederebbe se fosse il 1930 e fossimo in Alabama”.
Vi dirò, al di là delle situazioni tragicomiche, la mia relazione con la figlia di un iper-leghista mi ha insegnato un paio di cose. La prima: non voglio mai più nella mia vita fidanzarmi con una ragazza con familiari fermi a inizio Novecento.
Mai più, giuro. Non avrei più la pazienza di subire certi abusi. Come dover dimostrare di non essere uno spacciatore o rassicurare la madre che non avrei portato sua figlia in Africa per sempre. La seconda: un’esperienza così mi ha permesso di conoscere da dentro questi paesanotti imprigionati nelle proprie paure e nella loro scarsa cultura. Perché, alla fine, si parla sempre di razzismo in questi casi, ma è chiaro che il problema più grande è l’ignoranza. I genitori di Chiara guardavano me e vedevano solo gli sbarchi, i 35 euro e le notizie di cronaca che apparivano ogni giorno sul giornale. Non avevano mai conosciuto personalmente un nero. Sono contento che il primo e forse unico nero che abbiano davvero incontrato nella loro vita sia stato un ragazzo laureato e di buona famiglia, con un lavoro e la fedina penale pulita (per ora). E spero che, un giorno, riescano ad andare oltre al fatto che io per anni sia stato insieme con la loro figlia e abbia frequentato la loro casa dove tenevano i cimeli del Duce. Ops! Forse questo non dovevo dirlo? Però, dài, è divertente.
Se sei leghista la tua più grande paura è che arrivi un immigrato, si porti a letto tua figlia e poi si metta il tuo accappatoio e apra il tuo frigo per bere il tuo latte direttamente dalla bottiglia. La verità è che, mentre stavo con Chiara, mi sentivo come se mi stessi prendendo una grande rivincita sul razzismo subito per anni. Entravo nella via, sentivo tutti i vicini che sparlavano, vedevo i suoi genitori infastiditi dalla mia presenza, e poi… tac, quando ci chiudevamo nella sua stanza e loro non c’erano…
Dopo circa cinque anni io e Chiara ci siamo mollati, per la gioia dei suoi genitori. Ma quasi per fargli un dispetto, subito dopo di me, lei si è fidanzata con un rappresentante dell’unico gruppo sociale che per un vero padano è più vergognoso dei negri: un terrone. Con l’aggravante di essere napoletano.