Dieci anni dopo la crisi economico-finanziaria del 2007/2008, i lavoratori stranieri non hanno ancora del tutto recuperato i livelli occupazionali pre- crisi, almeno nei Paesi dell’Europa del Sud. L’allarme lanciato un anno fa dall’International Migration Outlook 2018 dell’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) torna attuale alla vigilia di un nuovo, probabile ciclo recessivo annunciato dai mercati (a cominciare dall’Italia già in recessione tecnica). Se infatti in Spagna, in Italia, in Grecia la disoccupazione è tornata a scendere dopo il picco registrato attorno al 2013, solo il Portogallo ha pienamente recuperato i posti di lavoro persi dagli immigrati dieci anni prima. In Spagna e in Grecia, in particolare, il tasso di occupazione tra i cittadini UE è ancora nettamente superiore a fine 2017 rispetto a quello dei lavoratori extra UE. Con divario enorme: fra gli 8 e gli 11 punti di percentuale.
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Nel complesso, però, il mercato del lavoro nell’Unione Europea si è dimostrato sicuramente più elastico e ricettivo all’integrazione. Nell’area EU28 tra il 2012 e il 2017 infatti il tasso di disoccupazione è sceso in media del 2.4% – 2.6%, più o meno alla pari tra cittadini europei e non. Registrando addirittura un 5-7% tra i lavoratori provenienti dall’Africa subsahariana e dall’America Latina.
Anche per i lavoratori immigrati o stranieri residenti, l’Europa non è un continente per giovani: nella rincorsa all’occupazione figurano nettamente in testa i più anziani ed esperti (con ben 7 punti di percentuale recuperati in cinque anni). E neanche per donne: la crisi ha morso un po’ tutti ma nel riassorbimento lento, non uniforme che si gioca sul mercato del lavoro, il participation rate — cioè la percentuale di occupati sulla popolazione adulta — è cresciuta del solo 0.5% in cinque anni tra le donne straniere contro il 3% della popolazione femminile EU.
Rispetto al Nord, l’Europa del Sud arranca oggi non solo dietro ai livelli occupazionali, ma anche alla qualità della sua offerta di lavoro: le occupazioni con una qualifica più bassa risultano chiaramente sovrarappresentate, confermando il logoro cliché degli immigrati venuti a fare i mestieri che i nativi “non vogliono più fare”. Nell’Europa del 2017 si calcola che per ottenere una distribuzione occupazionale uguale tra lavoratori immigrati e autoctoni, il 16% dei lavoratori stranieri avrebbe dovuto cambiare lavoro o mansione. Si chiama dissimilarity index e indica quante persone devono cambiare occupazione per raggiungere l’equità, ed è qui che Italia e Grecia — sia pure in lieve miglioramento negli ultimi 5 anni — spuntano il peggior risultato: oggi dovrebbe infatti cambiare occupazione più di un lavoratore su tre.
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Dove invece l’immigrazione è un fatto demografico e culturale acquisito, ancorché rigidamente strutturato, come in Canada o in Australia, l’indice
— e quindi il gap professionale — risulterebbe sensibilmente più basso (8%), ovvio. In Europa, tranne eccezioni come ad esempio la Svizzera, spesso i lavoratori stranieri vengono occupati con mansioni medio-basse malgrado la laurea o il titolo di studio superiore. Italia e Grecia detengono il primato negativo con una percentuale, rispettivamente, del 34% e del 29%, rispetto alla popolazione nativa (a fronte di una media OECD del 12%).