La scorsa settimana il Censis ha anticipato l’estratto di una nuova ricerca, “La mappa dell’imprenditoria immigrata in Italia”, realizzata con l’Università degli Studi Roma Tre e con il supporto finanziario dell’Inail da cui è emerso che le imprese straniere non conoscono crisi: in Italia i 447.422 titolari d’impresa nati all’estero sono il 14,6% degli imprenditori, l’81% di loro proviene da un Paese extracomunitario, uno su quattro circa sono donne. Tra il 2010 e il 2018, mentre gli imprenditori italiani diminuivano del 12,2% sotto i colpi della crisi, gli imprenditori stranieri sono aumentati del 31,7%. E sono anche più giovani: il 71,6% ha meno di 50 anni, mentre tra gli italiani gli imprenditori under 50 sono il 44,3% del totale.

La vera notizia riguarda però lo sviluppo economico: il 60% delle imprese condotte da cittadini con background migratorio è in attività da più di tre anni, con un fatturato stabile per il 53% dei casi e in crescita per il 20%.

Il 76% dei titolari d’impresa si dichiara del tutto (21%) o in parte (55%) soddisfatto dell’andamento della propria attività, anche quando riconducibile a profili d’integrazione minimi: il 12% degli imprenditori stranieri ha una scarsa conoscenza della lingua italiana, il 24% appena sufficiente, il 45% dichiara di frequentare esclusivamente altri cittadini stranieri nel tempo libero.

In attesa del report completo, proviamo a incrociare questi dati con le fonti attualmente disponibili. Secondo un’elaborazione fornita dal Centro Studi Unioncamere, e basata sul numero di partite IVA attive, gli imprenditori con cittadinanza non comunitaria nel 2017 sarebbero stati 374.062, pari all’11,7% del totale nazionale, in crescita (+0,3%) sul 2016 e con punte che superano il 15% in Toscana (17,2%), Lombardia (16,8%), Liguria (16,6%) e Lazio (15,8%). Sono tanti o pochi?

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Per fare un confronto con gli altri Paesi dell’Unione Europea dobbiamo ricorrere a Eurostat, che aggrega però le fonti demografiche degli istituti nazionali, per l’Italia l’Istat che, in questo caso, ha rielaborato dati INPS e dell’Agenzia delle Entrate. Trattandosi di elaborazioni a partire solo da evidenze fiscali, lo scorso anno risulterebbe però un numero minore: 320.300 imprenditori extra UE (4 mila in meno del 2017), uno su quattro circa con dipendenti propri, con una percentuale di riferimento, rispetto al totale degli imprenditori, che scende al 6,44%, appena sotto alla media UE28 (7,02%) ma al di sotto di Francia, Spagna, Germania, per non dire Svezia e Regno Unito.

Gli imprenditori non comunitari sono tanti, quindi, se guardiamo alle attività aperte, un po’ meno se contiamo quelli entrati nel radar del fisco e della previdenza pubblica. Dal punto di vista del “sistema Italia”, rappresentano un reticolo di quasi 5 milioni di PMI (più di Germania e Olanda messe insieme). In ogni caso è inoppugnabile che negli ultimi 10 anni siano cresciute esclusivamente le partite IVA di cittadini non comunitari, mentre la crisi non ha smesso di mordere gli imprenditori italiani (scesi da 5.269.500 a 4.977.100) e, anche se di pochissimo, comunitari (da 127.900 a 126.300).  

[infogram id=”eb9e30de-fd04-47d4-a604-91d2c9519502″ prefix=”kQ8″ format=”interactive” title=”Imprenditori non comunitari per regione”]

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Cosa fanno oggi le partite IVA cinesi, africane, albanesi venute a lavorare nel nostro Paese? Secondo la fonte UnionCamere la “torta” degli imprenditori non comunitari  si potrebbe suddividere così: 44,6% sono concentrati nel commercio, sia all’ingrosso sia al dettaglio, riparazione di autoveicoli ecc. (il 44,6% del totale); il 20% circa nelle costruzioni, il restante 30%  nelle attività manifatturiere (8,2%), di noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese (6,3%) e nel settore delle attività dei servizi di alloggio e di ristorazione (5,8%).

Più nel dettaglio, un imprenditore venuto a lavorare in Italia in almeno un caso su quattro è artigiano (128.429 su un totale di 1.700.816, pari al 7,6%), è in genere maschio (82%) come i suoi colleghi italiani ma molto più giovane (la metà ha meno di 40 anni), e lavora  nelle regioni del Nord (70,9%), in percentuale molto più netta rispetto al resto del mondo artigiano (56,4%). Nella metà dei casi, invece è un commerciante (221.524, pari a circa il 10% dei 2.240.961 iscritti nel 2017 alle Camere di commercio). In questo caso la percentuale di imprenditoria maschile (73,6%) eccede la media nazionale del commercio (64,9%).

Da una lettura di genere invece, la componente femminile varia significativamente per alcune nazionalità: è molto elevata tra i cittadini provenienti dall’Ucraina (56,7% ), dalla Cina (46,4%), dalla Nigeria (43,6%), dal Brasile (39,7%). All’opposto, si registra un’incidenza dell’imprenditorialità femminile più bassa tra le comunità pakistane, egiziane, bangladesi, algerine, tunisine, macedoni, senegalesi e albanesi.