Abderrahmane Amajou, 33 anni, nato a Oued Zem vicino a Casablanca in Marocco, in Italia dal 1994, cittadino italiano dal 2011, ex consigliere comunale a Bra in Piemonte, presidente di NILI (Network Italiano dei Leader per l’Inclusione) che organizza workshop anche a livello internazionale per la formazione di una nuova leadership, sogna in grande: «La diversità va vissuta insieme per costruire un obiettivo comune. Vogliamo diventare protagonisti al di là delle differenze nazionali».
Perché è venuto in Italia?
«Mio padre era già in Italia a lavorare. Nel nostro Paese faceva il minatore. La nostra era una zona di miniere di fosfati. Si è stabilito prima a Trento, poi a Torino, dove c’era una forte comunità di marocchini, e infine a Bra. Per un certo periodo ha dormito anche sotto i ponti. Faceva di tutto per vivere. All’inizio il venditore ambulante poi il saldatore che è stato il suo vero lavoro. Nel 1993 ha ottenuto il ricongiungimento famigliare. E siamo arrivati noi. Avevo appena finito la prima elementare».
Lei aveva sette anni. Com’era vivere in una piccola realtà di provincia, a Bra vicino a Cuneo?
«All’inizio scioccante. Sono arrivato che era estate. Non c’era nessuno. Non parlavo italiano. La nostra casa era vicino a un bosco. Stavo molto da solo. La prima sera, me lo ricorderò per tutta la vita, ho visto le lucciole. Non le avevo mai viste. Sono rimasto a bocca aperta».
E a scuola?
«Il primo giorno di scuola ho scoperto che dovevamo avere il diario, il portapenne, lo zaino. Io non ce li avevo. Non sapevo nemmeno esprimermi. Passai ore a piangere. Tutti erano curiosi di conoscermi, di sapere tutto di me. Una mamma di un mio compagno di classe che si chiamava Davide mi regalò un astuccio, il diario di Lupo Alberto e uno zaino. È stato il regalo più bello. Mi sono sentito accolto. In classe ho sempre avuto ottime relazioni. Era la scuola che era arretrata».
In che senso?
«Ci sarebbe voluto un corso intensivo di italiani per stranieri. Allora venivamo messi nelle classi con bambini più piccoli. Sono cose che avrebbero aiutato molto».
Poi prosegue gli studi.
«Ero bravo in disegno. Volevo fare il liceo artistico. Figuriamoci i miei genitori. Ho preso invece il diploma da geometra. Poi mi sono laureato in Scienze Politiche e ho fatto un master dell’ONU in Management of development, in Gestione dello Sviluppo, e sono diventato mediatore culturale».
A un certo punto ha scoperto anche la politica. Come è successo?
«Avevo 14 anni, stavo andando a un ballo organizzato dalla scuola quando sono passato davanti alla sede della Scuola di Pace di Bra dove era in corso un dibattito politico. Mi sono fermato. Mi sembrava più interessante. Non sono andato al ballo. Da lì mi è venuta la passione per i temi sociali. Mi sono avvicinato alla Sinistra Giovanile e poi ad Amnesty International».
Fino a che non si candida alle elezioni.
«Sì nel 2014. Avevo la tessera del Pd ma mi sono candidato in una lista civica che era più a sinistra. Su 240 candidati sono stato il quinto più votato».
Chi erano i suoi elettori?
«Italiani al 60%, stranieri il restante 40%. Ho preso voti soprattutto dalle periferie e dai quartieri più poveri, dall’élite culturale e dai giovani italiani. Mi hanno votato le famiglie straniere».
Poi dopo 5 anni non si è più ricandidato.
Avevo in mente l’alta politica. In Comune bastava una partita di calcio e rinviavano il Consiglio comunale. Una cosa che mi ha deluso. Ma alla fine è stata un’esperienza che mi è piaciuta. Abbiamo istituito una Consulta giovanile aperta anche ai non residenti. Una consueta multietnica dove si faceva il presidente a turno. Abbiamo lavorato molto sull’inclusione».
Lei è cittadino italiano.
«Sì, dal 2011. Se ci fosse stato lo ius culturae oggi sarei un poliziotto. È sempre stato il mio sogno. Ma non avevo la cittadinanza e non potevo partecipare al concorso. Mi affascinava l’idea di servire i cittadini, ho da sempre un senso della giustizia molto alto».
Lei ha 33 anni. È in Italia da 26. Alla fine si sente più marocchino o italiano?
«Fino a sette, otto anni fa me lo chiedevo spesso. Alla fine sono tutti e due. Sono un cittadino del mondo. In casa siamo in sette. I miei genitori e cinque figli. Tra noi fratelli parliamo italiano. In arabo con i miei genitori. Anche a tavola, nello stesso momento».
Molti giovani come lei fanno di tutto per nascondere le proprie origini…
«Dipende dal contesto famigliare. C’è anche chi si vergogna. Ma molti non sono mai stati nel Paese di origine dei loro genitori. Ci sono situazioni che possono essere difficili anche se a me non è mai capitato nulla direttamente».
C’è un episodio del 2009 che mi ha fatto molto riflettere. Lavoravo in un’azienda metalmeccanica. Ho partecipato ad una graduatoria interna ma non mi hanno preso. Azienda internazionale attenta a queste cose. Qualche mio collega di allora ha provato a spiegarmi, dicendomi: non potevi essere scelto, sei uno straniero. Alla fine me lo aspettavo.
Leggendo il suo profilo si scoprono le sue attività poliedriche.
«Sì, ho fatto di tutto. Lavoro anche per Slow Food International: da circa 4 anni abbiamo aperto l’ufficio sulle tematiche migratorie di cui sono coordinatore. Abbiamo due progetti, uno finanziato dall’agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo e un altro finanziato da IFAD, fondo delle Nazioni unite per lo sviluppo agricolo. L’idea è quella di usare il cibo come strumento di inclusione e di cooperazione. Abbiamo collaborazioni in tutta Europa e a New York. Siamo ambasciatori del cibo visto come strumento di conoscenza».
A proposito di ambasciatori…
«Sono stato nominato ambasciatore della Cultura Rom. Ho organizzato un corso di formazione per seconde generazioni a cui avevano partecipato anche alcuni ragazzi rom. Alla fine mi hanno conferito questo riconoscimento che mi ha fatto molto onore».
Corsi che organizza come NILI. Ci spiega cos’è?
Il Network Italiano dei Leader per l’Inclusione è aperto a chi è già leader nel suo territorio. Vogliamo valorizzare l’identità. Ci interessa la diversità vissuta insieme come obiettivo comune. Nel direttivo ci sono 8 persone, dalla Russia, Marocco, Perù, Albania… Collaborano con noi esperti internazionali.
«Poche settimane fa abbiamo fatto un workshop a Firenze con una trentina di persone. A parlare di diritti è venuta da Washington una ragazza afroamericana. Ci hanno contattato dalla Commissione Politiche giovanili del Consiglio dei Ministri. Faccio parte di TILN, Transatlantic Inclusion Network, un gruppo di giovani attivisti tra Europa e Stati Uniti, per l’inclusione. Ognuno nel suo territorio realizza attività mirate all’uguaglianza, ai diritti, all’innovazione e alla crescita collettiva, che non veda come svantaggioso l’appartenere ad una etnia o religione o altre culture. Vogliamo creare un network. Vogliamo diventare protagonisti. E costruire una rete di inclusione a livello internazionale».