Abbiamo cominciato a esporre i profili critici del cosiddetto decreto sicurezza sin dalla sua entrata in vigore, il 5 ottobre scorso. Durante il periodo della sua conversione abbiamo continuato a scriverne, per portare all’attenzione pubblica le conseguenze che avrebbe comportato. Qualcuno forse non è stato così attento, poiché solo pochi giorni fa alcuni sindaci si sono resi conto degli effetti che il provvedimento avrebbe avuto e hanno sollevato il problema in modo mediaticamente molto forte. Dopo un primo momento, in cui pareva che essi fossero intenzionati all’inosservanza della legge senza il preventivo ricorso a un giudice, ora la situazione si va definendo. L’impressione è che, come una parte della maggioranza ha usato il tema dell’immigrazione a fini di consenso elettorale, così l’opposizione abbia inteso strumentalizzare la questione: ciò in ragione sia dei tempi, poco solleciti, occorsi ai sindaci “ribelli” per sollevarsi contro la nuova disciplina – come detto, vigente da ottobre – sia delle modalità che hanno scelto. Infatti, essi avrebbero potuto reagire durante il periodo di conversione del decreto-legge, rilevandone gli impatti, sensibilizzando l’opinione pubblica (che i politici tengono da conto), facendo pressione mediatica e, forse, così inducendo il Parlamento a non convertire alcune disposizioni o ad attenuarne la portata. Alcune osservazioni critiche sulla rivolta dei sindaci possono formularsi – oltre che per la tempistica e le modalità, come sopra spiegato – anche per la sostanza. Infatti, i primi cittadini lamentano che, essendo ora preclusa ai richiedenti asilo la possibilità di ottenere l’iscrizione nell’anagrafe dei residenti nel Comune, essi sarebbero privati tout court dell’assistenza sanitaria e sociale. Quest’affermazione non è del tutto corretta. Secondo il decreto Salvini (art. 13), «L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio». Cosa significa questa norma? Significa che gli stranieri in attesa della definizione della propria situazione giuridica non restano privi di assistenza in quanto sprovvisti di residenza, poiché essa verrà fornita loro in relazione al domicilio, quale risulta dalla ricevuta attestante la presentazione della domanda di protezione internazionale che costituisce permesso di soggiorno provvisorio. E di quali servizi essi possono godere? A questo riguardo, vi sono due interpretazioni diverse.
L’interpretazione del Servizio Studi del Senato
Secondo il Servizio Studi del Senato, che richiama le Linee guida sul diritto alla residenza dei richiedenti e beneficiari di protezione internazionale, ai minori stranieri continua ad essere assicurato il «diritto all’istruzione e alla formazione» e ai richiedenti asilo vengono garantite le «cure urgenti ed essenziali, ancorché continuative»: si tratta di servizi forniti anche agli irregolari, quindi a maggior ragione a chi risiede legittimamente. Il Servizio Studi precisa, inoltre, quali sono i servizi che trovano nell’iscrizione anagrafica il proprio presupposto e, quindi, non sarebbero più fruibili: ad esempio «l’accesso all’assistenza sociale e la concessione di eventuali sussidi o agevolazioni previste da ogni comune, ad esempio quelle basate sulle condizioni di reddito, verificate mediante l’indicatore ISEE, erogati dalla pubblica amministrazione o da soggetti dalla stessa delegati» o «l’accesso ad altri diritti sociali, tra i quali la partecipazione a bandi per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, i sussidi per i canoni di locazione ecc.». Dunque, sulla base del documento del Servizio Studi del Senato, può desumersi che l’esclusione dall’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo servirebbe a marcare alcune variazioni nell’assistenza ad essi concessa rispetto al regime previgente. E il motivo è indicato nella relazione illustrativa al decreto Salvini: la precarietà del permesso di soggiorno – connessa a uno status giuridico da definire – preclude a questi ultimi la fruizione di servizi per i quali si pretende una condizione di stabilità. Cosa conseguirebbe a tutto questo? Sia quelli che richiedono asilo sia quelli che hanno già ricevuto asilo soggiornerebbero in modo legittimo sul territorio nazionale, ma ai primi spetterebbero meno diritti: si creerebbe così una situazione di diseguaglianza sostanziale a fronte di una pari condizione di regolarità formale.
Il parere contrapposto dell’ASGI
A questa tesi si contrappone quella dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) secondo cui, da un lato, il decreto Salvini non impedirebbe ai richiedenti asilo l’iscrizione anagrafica, dall’altro, pur in mancanza di detta iscrizione, essi avrebbero comunque diritto ad accedere «a tutti i servizi previsti dal d.lgs stesso ed anche a quelli “comunque erogati sul territorio” sulla base del domicilio dichiarato al momento della formalizzazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale». E sarebbero loro garantiti non solo i servizi erogati dalla pubblica amministrazione, bensì «anche quelli di pertinenza di soggetti privati, quali le banche, le assicurazioni, le agenzie immobiliari, etc. A titolo esemplificativo, dunque, si possono ricomprendere i servizi afferenti all’istruzione (scuola, nidi d’infanzia) e alla formazione, anche professionale, ai tirocini formativi, alle misure di welfare locale (comunale e regionale), all’iscrizione ai Centri per l’impiego, all’apertura di conti correnti presso le banche o le Poste italiane, etc.». A quanto indicato dall’ASGI potrebbe obiettarsi che, in assenza di iscrizione anagrafica e salvo in quei comuni nei quali esistono registri dei domicili temporanei o strumenti similari, gli amministratori locali non sarebbero comunque in grado di avere un quadro completo di chi soggiorna nel proprio territorio, né di pianificare l’impiego delle risorse in funzione del numero dei fruitori dei servizi, mancando un elenco da cui questi ultimi risultino complessivamente. Inoltre, a seguito del decreto Salvini, i richiedenti asilo non ricevono più accoglienza negli ex Sprar (ora Siproimi, riservati solo ai rifugiati e minori non accompagnati), bensì in «strutture di prima accoglienza (CARA e CAS), all’interno delle quali permangono (…) fino alla definizione del loro status» (circolare Min. Interno 18.12.2018): e in dette ultime strutture – spesso oggetto di gestioni poco trasparenti – essi non vengono controllati e seguiti come nelle prime, anche al fine dell’erogazione dei servizi di cui hanno bisogno. Appare palese che sul tema vi sono opinioni parzialmente discordanti: ma i sindaci sembrano non tenere conto di nessuna di esse quando parlano degli impatti della nuova legge, soprattutto non distinguendo fra i differenti status delle varie categorie di immigrati e dei diversi diritti a essi spettanti. Peraltro, essi mostrano di voler affrontare il tema in modi divergenti, col probabile risultato che alcune disposizioni della legge saranno applicate in modo difforme sul territorio nazionale. Basterebbe già solo questo per criticare un testo normativo che dovrebbe essere di interpretazione chiara e univoca per tutti. Ma i motivi sono comunque molti altri: ne abbiamo dato conto e continueremo a farlo, seguendo le vicende in corso.