Sin dall’emanazione del cosiddetto decreto sicurezza erano note le conseguenze che sarebbero derivate dalla eliminazione della clausola aperta della protezione umanitaria, dalle restrizioni al sistema di accoglienza, dalla riduzione dei fondi destinati agli immigrati. Oggi alla ribalta delle cronache c’è la chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto. Al riguardo, occorre fare attenzione: da un lato, per non imputare alla nuova legge su sicurezza e immigrazione anche effetti non attribuibili a essa; dall’altro, per capire come specifiche disposizioni di quella legge possano essere comunque collegate alla vicenda.

Innanzitutto, i fatti. Entro la fine di gennaio, gli immigrati ospitati nel citato Cara devono lasciare la struttura e le operazioni di allontanamento sono iniziate senza che ad essi e alle autorità locali venisse dato un preavviso adeguato. Come riportato dal Messaggero del 23 gennaio scorso, il Cara in questione, «gestito dalla cooperativa Auxilium (…) per un somma che nel 2017 superava i 6 milioni di euro, di fatto era una struttura fuori norma. Si trova sotto il livello del mare ed era un deposito della protezione civile». A ciò va aggiunto, più in generale, che i Cara – affidati a cooperative e soggetti privati a seguito di bandi di gara delle prefetture – sono grandi centri, che ospitano anche migliaia di persone e dovrebbero essere dedicati solo alla prima accoglienza, mentre i migranti vi restano per anni. E, come ha scritto anche Cristina Giudici nell’editoriale di questa settimana, tali centri sono stati spesso oggetto di inchieste giornalistiche e giudiziarie per le pessime condizioni di igiene e di accoglienza, per le irregolarità negli appalti, per la presenza di criminalità.

Detto ciò, il Cara andava chiuso e, pertanto, l’intera vicenda è scollegata dalla legge voluta da Salvini, come qualcuno sostiene in questi giorni? Proviamo a fare chiarezza.

Se è vero che il Cara non era a norma, che comportava costi elevati e che rispetto ad esso è preferibile l’accoglienza in strutture più piccole e controllate, è altrettanto vero che i problemi possono essere risolti in molti modi e, soprattutto, che non è stato tenuto in alcun conto l’elemento essenziale da considerare quando si tratta di immigrati regolari: l’integrazione. A Castelnuovo di Porto l’integrazione stava funzionando, come attestato sia dagli immigrati stessi che dagli abitanti del luogo intervistati; era pure stato sottoscritto «un protocollo d’intesa con la Prefettura per progetti culturali e di volontariato (museo di arte e mestieri, rassegne fotografiche, corsi di teatro)» e «per l’inserimento scolastico dei bambini» e «la gestione non ha mai dimenticato l’aspetto della sicurezza, in collaborazione coi Carabinieri di Bracciano» (Travaglini, sindaco di Castelnuovo di Porto).

Il vulnus non è tanto la chiusura del centro, quanto la plateale esibizione dell’assenza di qualunque tentativo da parte dell’autorità centrale di reperire – in collaborazione con le autorità locali, con un tavolo di concertazione – soluzioni idonee a garantire agli stranieri quel legame con la comunità che è il primo tassello per l’inclusione sociale.

In altri termini, non si è neanche provato a trovare il modo per consentire agli immigrati di rimanere nel luogo ove ormai erano inseriti; ai minori stranieri di restare nelle scuole che avevano iniziato con i loro compagni (anche se a ciò forse si porrà rimedio); a quelli che svolgevano un qualche lavoro socialmente utile – e non solo – di proseguire. Dunque, se pure l’allontamento degli stranieri è stato determinato dalle condizioni della struttura, dall’entità dell’affitto e da altro, le modalità in cui esso è stato attuato non sono imputabili a quelle cause. Inoltre, se la mancanza di integrazione dei titolari di permesso di soggiorno per protezione umanitaria è uno dei pretesti con cui si è giustificata l’abolizione di tale forma di tutela, la vicenda di Castelnuovo dimostra che, là dove l’integrazione era stata realizzata, la si va smantellando. Questo è un paradosso o forse l’effetto di una logica perversa: solo facendo sì che l’immigrazione continui a essere percepita come un problema, come un fattore di insicurezza, un certo storytelling politico può essere costantemente alimentato. E pure la nuova legge concorre a questo risultato, come dimostra anche quanto accaduto a Castelnuovo di Porto. Si è, infatti, accennato – e chiarito in articoli precedenti – che il decreto sicurezza ha abolito la “clausola aperta” di protezione per motivi umanitari (tipizzando solo pochi casi in cui può essere concessa una tutela). Tuttavia, con una norma transitoria, il decreto ha previsto – tra le altre cose – che i titolari di protezione umanitaria già presenti nel sistema Sprar (ora trasformati in Siproimi e riservati solo a rifugiati e minori non accompagnati) rimangano in accoglienza fino alla scadenza del progetto; mentre nulla ha disposto per quelli che, non avendo trovato posto negli Sprar, alla data di entrata in vigore del decreto erano nei Cara. Pertanto, i titolari di protezione umanitaria conservano il diritto a restare nello Sprar e a completare il percorso di inclusione o formazione, se già inseriti: ma se si trovano all’interno di un Cara non hanno diritto di rimanervi né di ricevere altra forma di ospitalità, poiché la norma transitoria non li contempla specificamente. Ciò spiega uno dei motivi per cui alcuni stranieri finiranno in mezzo alla strada a seguito della chiusura del Cara citato.

Con riguardo alla questione di Castelnuovo di Porto, non ci si soffermerà sui casi dei richiedenti asilo che avevano comunque iniziato un lavoro e lo perderanno a seguito dell’allontanamento dal Cara; dei titolari di protezione internazionale, che conservano i diritto ad essere accolti e integrati in altri centri ma, interrompendo il percorso virtuoso che avevano avviato, dovranno ricominciare altrove il processo di inclusione, con tutte le difficoltà connesse a un nuovo inizio in una situazione di fragilità; degli oltre cento dipendenti del Cara, che rischiano di essere licenziati. È, invece, ancora importante rilevare alcuni meccanismi comunicativi che sono emersi in questi giorni, traendo spunto dalla citata vicenda. Ad esempio, quando il ministro dell’Interno afferma di andare avanti «nel rispetto delle regole» sarebbe bene fargli notare che vantare il rispetto di regole che si è confezionato su misura col decreto sicurezza – alcune di dubbia costituzionalità, come spiegato in articoli precedenti – non ha molto senso; così come non ha senso che egli sostenga di limitarsi ad applicare il diritto, dopo che con il citato decreto ha ristretto il perimetro del diritto per gli immigrati, riducendo le possibilità di regolarizzazione, togliendo l’accoglienza a quelli cui prima spettava, destinando forme di inclusione solo a pochi; parimenti, è un paradosso affermare che il governo combatte i “clandestini”, quando un futuro di clandestinità è ciò che attende coloro i quali, fino al giorno prima del decreto sicurezza, potevano contare su un regolare permesso di soggiorno.

La vicenda di Castelnuovo di Porto presenti profili variegati e complessi, che serve conoscere per poter dipanare la matassa e valutare quanto accade e accadrà.