Il libro di Raffaele Simone, L’ospite e il nemico (Garzanti), che avrebbe dovuto suscitare una polemica, un bel dibattito come si diceva una volta, perché mette a nudo tutte le tesi su quella che lui definisce in modo eccessivo la Grande Migrazione, non ha avuto eco. Eppure il suo excursus storico è suggestivo. O quanto meno offre più argomenti per affrontare un tema complesso, senza affidarsi ai luoghi comuni.
Sapevate ad esempio quando e come è stato codificato il diritto di migrare? All’epoca della scoperta delle Americhe. E non per fuggire da una guerra o dalla fame, ma per legittimare la scoperta e la conquista del Nuovo Mondo.
Cito Raffaele Simone: «Il diritto di migrare ha infatti due facce ben distinte: il diritto di lasciare il proprio Paese (possiamo chiamarlo diritto di esodo) e quello di entrare in un Paese altrui (chiamiamolo diritto di accesso). Le due facce sono facilmente confuse, talvolta per calcolo politico. Basta per esempio ricordare che, all’epoca della scoperta delle Americhe (cioè, per usare le parole giuste, dell’invasione delle Americhe da parte degli spagnoli), si sviluppò in Spagna un fervido dibattito teologico-giuridico su una questione che oggi può parere capziosa: gli spagnoli avevano o no il diritto di insediarsi in terre non loro? Fu in quel contesto che giuristi come Francisco de Vitoria elaborarono la nozione di “diritto di migrare”, cioè di lasciare il proprio Paese senza esserne impediti».
Un’osservazione che dovrebbe imporre una riflessione e invece nulla al cubo. Mi stupisce ancora di più la mancanza di un dibattito serio e costruttivo sull’integrazione, che noi cerchiamo di stimolare in tutti i modi. Anche attraverso l’editoriale dei lettori, per dare spazio a chi ci segue e può spiegarci meglio di chiunque altro cosa sta accadendo attraverso la propria testimonianza. Mi ha colpito quanto ci ha scritto questa settimana un giovane di 27 anni, figlio di tunisini. «Non posso dire che sono italiano senza ricevere spesso in risposta una risata o un’occhiata dubbiosa».
È il dramma della generazione involontaria che non ha scelto di nascere in Italia. Non ha scelto di emigrare, eppure deve combattere per affermare il proprio diritto ad inserirsi.
Ogni volta che uso il termine, credo più corretto, nuove generazioni di italiani, molti mi guardano stupiti e poi esclamano: «Ti riferisci agli immigrati?». E forse non è neanche ostilità, ma solo un’immensa, catastrofica, superficialità.
Un nostro lettore, che ha manifestato la sua frustrazione, ci ha dato una diversa chiave di lettura. Ci ha scritto: Io non credo che ci sia una vera e propria ostilità che colpisce anche noi di seconda generazione, la definirei piuttosto terrore della competizione.
E allora capisco il silenzio che avvolge la generazione involontaria. È difficile prendere in considerazione tutti coloro che, ormai fra i 20 e i 30 anni, ambiscono a ruoli sociali adeguati alle proprie competenze e agli studi sempre più spesso qualificati. I loro progressi fanno paura in una società terrorizzata dall’impoverimento e dal timore di perdere non tanto le proprie radici, ma lo status. E allora il colore della pelle non c’entra nulla? L’astio sulla nostra pagina Facebook verso un cittadino africano che dalla strada è arrivato ad avere un ruolo manageriale si spiega forse così. Paura della competizione, più che razzismo?
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Per la prima volta a Bruxelles arrivano 20 eurodeputati di origini straniere (dall’Italia 0). Chi sono? Ce lo racconta Costanza de Toma.
A scuola lo avevano soprannominato Bettino per gioco perché gli riconoscevano una capacità carismatica. Ora Oussama Mansour, cittadino italiano figlio di una coppia di tunisini, ci scrive: «Non posso dire che sono italiano senza spesso ricevere in risposta una risata o una occhiata dubbiosa». Tutto bene fra le seconde generazioni di italiani? Pare di no.
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