L’Italia è piccola per noi, troppo piccolina. Soprattutto se vista dall’isola di Manhattan, dove mi trovo per un breve viaggio. L’Italia che si dibatte come una mosca intrappolata in una bottiglia sul decreto sicurezza bis sembra un luogo piuttosto surreale. Sebbene rivisto e ridimensionato, il nuovo decreto lascia aperti tutti i nodi che permetteranno ad ogni sbarco di ingaggiare una pantomima sulla pelle dei migranti perché esistono accordi internazionali che non possono essere violati.
Sarà perché qui dove mi trovo, il melting pot non ha bisogno di essere raccontato come ci sforziamo di fare ogni giorno con NuoveRadici.World ma è normale come l’aria elettrica che si respira. E nella polis più plurietnica del mondo, ci si sente anche un po’ idioti quando si prova a spiegare a qualcuno lo scopo e l’urgenza della nostra narrazione.
E allora mi riesce difficile entusiasmarmi per i quattro consiglieri comunali eletti di origini straniere alle elezioni amministrative o compiacermi perché Rami e Adam — i due adolescenti che hanno salvato i loro compagni sul pullman a San Donato — hanno finalmente ottenuto la cittadinanza. Poco, troppo poco per poter pensare che anche il nostro Paese sia parte del globo che cambia e si evolve rapidamente.
E invece vista da qui l’Italia è piccola per noi, troppo piccolina. Ed è per questo che mi stupisco che in molti negozi delle catene low cost, dal management ai dipendenti, siano tutti giovani e afroamericani.
Certo, se si va più in alto nella scala sociale e la posta in gioco diventa più seria, anche nell’oasi liberal di Manhattan le discriminazioni sono più evidenti. Ma mi fa sorridere leggere polemici tweet nostrani, conditi di stereotipi sui sikh e i loro pericolosi pugnali, mentre oggi ho incontrato un lavoratore sikh che al posto del pugnale aveva grandi cuffie in testa per ascoltare musica rap, solo per fare un esempio su come nel nostro Paese la visione sul multiculturalismo sia limitata ai propri campanili e parecchio distorta.
La faccenda diventa seria invece se si pensa che nessuno riesce a risolvere il nodo della schiavitù nei centri di detenzione in Libia, dove alcuni operatori hanno affermato nei giorni scorsi di assistere impotenti a stupri e a tende-bordelli create apposta di fronte ai centri per violentare o far sparire le giovani migranti.
Servirebbe, invece di boutade provinciali e demagogiche sull’immigrazione, un’operazione congiunta europea per mettere fine a quello che si sta configurando sempre di più come un crimine di guerra, come ipotizzato da un pool di avvocati europei che hanno fatto un esposto alla Corte penale internazionale dell’Aja. E non solo contro l’Italia, ma l’Europa intera. Non ci si salva la coscienza con i corridoi umanitari.
Mentre in Italia si litiga sugli sbarchi fantasma e sul numero esatto, in realtà incalcolabile perché in mare la matematica è davvero un’opinione, dei migranti morti o scomparsi durante il tentativo di lasciare la Libia, leggo una storia sul New York Times che mi ricorda cosa accade però nell’America di Donald Trump.
La storia di Scott Warren, un giovane insegnante volontario dell’organizzazione umanitaria No More Deaths, arrestato e finito sotto processo perché assisteva i migranti che attraversano il deserto dell’Arizona
Rischia 10 anni di carcere per aver portato cibo, acqua e coperte a migranti sudamericani al confine per contrastare la politica di Trump della terra bruciata (in pratica, fare in modo che i migranti al confine nel deserto non trovino rifugi, acqua e cibo nel viaggio per farli morire disidratati). Scott è accusato di aver portato alcuni migranti negli Stati Uniti in modo illegale. Una storia al cui confronto le confische delle navi nel Mediterraneo previste dal decreto sicurezza bis fanno sembrare forse l’Italia davvero troppo piccola o semplicemente incapace di guardare cosa accade all’esterno dei suoi labili confini.
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